dietro le quinte

Scrivanie, dove nascono i libri: Veronica Galletta

Dove scrivono, quando scrivono le nostre autrici e i nostri autori? In questa puntata lo chiediamo a Veronica Galletta, in libreria con Nina sull'argine


C’è questa poesia di R.L.Stevenson, My bed is a boat (Il mio letto è una nave), che comincia così:

«My bed is like a little boat:

Nurse helps me in when I embark;

She girds me in my sailor’s coat

And ‘starts me in the dark.»

E a questa poesia mi viene da pensare, quando penso alla mia scrivania: la mia scrivania è come una nave, nel buio mi vede salpare. Anche se le ragioni sono forse meno poetiche di quelle delle poesie di Stevenson: racconti dell’infanzia, della malattia, dei suoi anni bambini costretto a letto. Solo, la mia scrivania è una nave perché è ovunque, è stata ovunque in questi anni. Per ragioni pratiche, mi vien da dire di primo acchito: semplicemente, ho scritto dove ho potuto: in treno mentre andavo al lavoro, sulla panchina del parco mentre il figlio giocava, con le cuffie antirumore sugli spalti della piscina, ad aspettare. Durante un corso di aggiornamento particolarmente noioso (ricordarsi di annuire ogni tanto: il vostro scrivere verrà preso per appunti). Sulla soglia di un portone qualunque, durante la pausa pranzo. Chiusa in macchina, con la luce di cortesia e Radio3 in sottofondo. E a volte sì, anche qui, nello studio della mia casa a Livorno. Davanti al pc, con la mia tastiera meccanica che mi detta il ritmo. Ho scritto dove ho potuto, dicevo, ma so che non è vero fino in fondo. Non c’è mai un’unica sola ragione nelle cose che mi riguardano. Ho scritto in tanti luoghi per necessità materiale, ma anche profonda. Dovevo dimostrare a me stessa che potevo scrivere sempre, che la scrittura mi riguardava così tanto che potevo praticarla in ogni condizione. Che niente mi avrebbe fermato. Che era tutto nella mia testa: bastava solo una ferrea organizzazione. Programmazione, liste di cosa portare. Quali quaderni, quali penne, quali libri. Cosa stampare per non perdere il filo, che schemi fare la mattina presto, per portare in giro la mia scrittura. Così inevitabilmente la mia scrittura è fatta di quaderni, decine di quaderni, e poi etichette, pecette, post it, in una parcellizzazione di idee, argomenti, progetti, con la quale millanto ordine, generando spesso solo caos.

Per fortuna poi approdo alla scrivania che, come il letto di Stevenson, mi vede partire, mi aspetta tornare. Qui rimetto in ordine, trascrivo appunti, catalogo foto, preparo nuovi elenchi. E finalmente guardo dentro la mia scrittura. Scrivo, correggo, stampo, ricomincio. Così nascono le mie storie, così è nata Nina sull’argine: in ufficio, durante le pause, in auto lungo l’Arnaccio, certi pomeriggi chiusi in casa, in un paesaggio collazionato e intimo che si fa toponomastica personale.

Dalla mia scrivania posso guardare fuori. Non è un movimento naturale però: il mio studio è ricavato da uno sgabuzzino. È ampio, ma senza finestre. Vive di luce riflessa, che arriva dal salone attraverso un grande arco. Per guardare fuori allora devo voltare la testa e puntare in fondo, traguardare le poltrone, superare i divani: solo allora arriva la luce, il mondo esterno. È un fuori presente, ma distante. Certi giorni vorrei uno studio diverso. Non al buio, magari con un affaccio su un piccolo giardino. Anche un solo albero andrebbe bene. Un pitosforo, un limone. Un affaccio da seduta sulla vita che scorre, che io invece ascolto solo di rimbalzo, da un cortile chiuso. Il libeccio sui fili dei panni, lo stridio delle seghe dei fabbri (le liti dei fabbri), i versi dei gabbiani quando puntano i gatti (i gatti che li cacciano), qualche telegiornale spaurito. Ma poi ripenso a Stevenson, a My bed is a boat, che finisce così:

«All night across the dark we steer:

But when the day returns at last,

Bare in my room, beside the pier,

I find my vessel fast.»

 

Allora mi dico che sono io: salva nella mia stanza, il mio veliero è di nuovo attraccato. Questo forse mi dice la foto che ho appena scattato per questo pezzo. Fra i cavi, le cuffie per lo zoom, le penne, le graffette, spuntano un fiore di carta, una tazza con i rinoceronti, un escavatore e un’impastatrice giocattolo, una stella bianca di un Natale lontano. Sulla bacheca di sughero al muro, una poesia di Emily Dickinson, la mappa della Sicilia fantastica, una foto della casa di Ortigia dal mare, una foto del bambino nella nebbia, indosso un cappottino blu oramai stretto.

La mia è una scrivania sentimentale. 










 

Nelle puntate precedenti:

La scrivania di Pietro Scaramuzzo

La scrivania di Marco Rovelli
La scrivania di Graziano Gala

La scrivania di Corrado De Rosa
La scrivania di Antonio Iovane
La scrivania di Francesco "Kento" Carlo
La scrivania di Sandro Di Domenico
La
 scrivania di Gabriele Sabatini
La scrivania di Marta Zura-Puntaroni
La scrivania di Gianluca Didino 
La scrivania di Vanni Santoni
La scrivania di Carola Susani

La scrivania di Danilo Soscia

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