dietro le quinte

Scrivanie, dove nascono i libri: Gabriele Sabatini

Dove scrivono, quando scrivono le nostre autrici e i nostri autori? In questa puntata lo chiediamo a Gabriele Sabatini, in libreria con Numeri uno. Vent'anni di collane in otto libri. 

 

C’è un frase a cui mi capita spesso di pensare, e che ho appena riletto mentre sono le 11:00 di un sabato mattina e da oltre un’ora sono seduto davanti al computer a non fare niente: «Sapeva trovare spazio per studiare e per scrivere, per guadagnarsi la vita e per oziare sulle strade che amava: e noi che annaspavamo combattuti fra pigrizia e operosità, perdevamo le ore nell’incertezza di decidere se eravamo pigri o operosi».

La frase è di Natalia Ginzburg. La scrive alcuni anni dopo il suicidio di Cesare Pavese, ricordando l’amico in un ritratto che possiamo ancora oggi trovare all’interno di Le piccole virtù. Perché io pensi spesso a questa frase, è presto detto: perché riaccende in me l’ammirazione per chi sa trovare spazio e tempo per studiare e scrivere senza troppe scuse.

Io, invece, appartengo per natura alla famiglia dei pigri. Di quelli della specie peggiore, poi; quelli che non ammettono – tranne in rari momenti di lucidità – la propria pigrizia, e con una certa naturalezza danno la colpa a tutto il resto per poter dire, con la coscienza alleggerita: «ecco, anche oggi non rispettato il programma che mi ero prefissato, ma che vuoi farci, così è la vita. Del resto, lo diceva anche Alba de Céspedes che “non ci sono bozze o poesie o angosce che possono passare avanti all’inesorabile dovere di cucinare, spolverare, fare i letti”». Mi appiglio persino alle citazioni, per giustificare la fannullaggine, pensate un po’.  

Naturalmente, questo atteggiamento fa sì che io non sia un animale da tavolino, uno di quegli autori in grado di scrivere al bar, in treno, sotto l’ombrellone, in sala d’attesa dal medico.

Sia perché le persone, le chiacchiere, la vita attorno a me attirerebbe la mia attenzione più del libro che dovrei studiare o del capitolo che dovrei abbozzare, sia perché quello di cui sento straordinariamente bisogno per cominciare a buttare giù qualche riga che possa sembrarmi sensata è una scrivania su cui possa distendere tutti gli oggetti che accompagnano la scrittura (pc, appunti, libri, fotocopie), sotto la quale le mie gambe possano stare comode. Sono infatti un uomo alto e, come diceva mia nonna, intruppone, cioè sbatto dappertutto, perciò, ecco, non mi trovo bene con tavolini. Oppure anche questa è solo una scusa. Come che sia, più che un posto pulito, illuminato bene, quello che cerco è un luogo appartato, con un tavolo sufficientemente ampio. 


In questa ricerca, devo ammetterlo, ho avuto fortuna, e il tavolo su cui ho speso la maggior parte del tempo dedicato a Numeri uno si trova in casa, in una camera che io e Laura usiamo come studio, stanza da stiro e – quando piove – stenditoio. Come studio fa egregiamente il suo dovere: è abbastanza spaziosa, affaccia su un terrazzo all’ultimo piano del palazzo, è luminosa e, per quanto silenzio possa esserci in un quartiere popolare di Roma, silenziosa. Il tavolo l’ho preso all’Ikea, e secondo me ha il pregio di rovinarsi facilmente sembrando molto più vissuto di quanto sia in realtà.

Numeri uno è nato però in altri due posti: la scrivania della casa editrice in cui lavoro, sulla quale spesso mi sono potuto dedicare alla scrittura la sera, quando l’ufficio si spopola; la sala Falqui della Biblioteca Nazionale, dove mi sono recato quasi tutti i sabato mattina per un anno, ingombrando sia la postazione assegnatami sia quella accanto (il sabato c’è meno gente).

Di fatto, l’aver avuto a disposizione questi tre spazi, ciascuno a suo modo ospitale, mi ha posto nella condizione di non avere più scuse, e di trarre piacere dal lavoro anche se questo doveva per forza di cose svolgersi di notte o nel fine settimana. Insomma, Numeri uno è stato scritto anche grazie alla fortuna di aver avuto scrivanie e stanze tutte per me. Spero che il risultato non abbia tradito quella fortuna.


Nelle puntate precedenti:

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