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Beer, jelly and ice cream: Sillitoe e la letteratura working class

Inauguriamo una nuova rubrica in collaborazione con minimum lab: ospitiamo sul magazine articoli di approfondimento a cura dei nostri corsisti. Carlo Vidotto ha seguito il percorso di Editoria: qui ci racconta Alan Sillitoe.


«Choose rotting away at the end of it all,
Pushing you last in a miserable home
Nothing more than an embarrassment to the selfish,
Fucked-up brats you have spawned to replace yourself.
Choose your future. Choose life.»

(Trainspotting, 1997)

 

C’è una scena famosissima di Trainspotting – il film tratto dal romanzo di Welsh – in cui Begbie, lo psicopatico alcolizzato, scaglia un boccale di birra vuoto dal piano soppalcato di un pub e colpisce in testa una ragazza. Tira fuori un coltello dalla tasca e scende giù dalle scale ben felice di affrontare le conseguenze delle sue azioni: «Begbie didn’t do drugs, he does people» afferma la voce narrante mentre nel pub esplode una gigantesca rissa tutti contro tutti.

Chiunque abbia visto questo film, Hooligans, This is England, i film di Ken Loach, Billy Eliot, Full Monty ha ben presente l’immaginario a cui mi riferisco: la working class britannica e la sua rappresentazione cinematografica. Le birre, i pub, la droga, le risse, le sale da biliardo e le freccette, fuck o fucking ogni tre parole, le case di mattoni tutte uguali, il lavoro e la disoccupazione, i tè, i piccoli furti, le scommesse e le partite di calcio.

Questi film hanno raccontato la classe lavoratrice post-thatcheriana e postindustriale, la disoccupazione dei giovani delle province e l’emergere di sottoculture e dipendenze di ogni tipo. Ma è negli anni ’50 che uno scrittore si è affacciato per la prima volta a questa materia. Si tratta di Alan Sillitoe. Membro orgoglioso della working class dei dintorni di Nottingham, è stato spesso avvicinato all’estetica degli Angry Young Men e del Free Cinema inglese, visto che Karel Reisz e Tony Richardson hanno tratto i loro film più celebri da due dei suoi libri: Sabato sera, domenica mattina e La solitudine del maratoneta. Il primo è un romanzo e inizia proprio in un pub, con il boccale di birra di Begbie stretto tra le mani di Arthur Seaton, il ventenne protagonista, impegnato in una gara di bevute con un militare. Arthur vince naturalmente. Ma dopo undici pinte e sette bicchierini di gin è anche normale che precipiti giù dalle scale che conducono ai bagni e svenga.

Sabato sera è ambientato subito dopo la guerra, in un clima di euforia legato alla crescita economica e alla voglia di onorare la fortuna di essere sopravvissuti. È una specie di carnevale per Arthur. Le strade sono immerse in un grigiore di piombo ma i pub sono caldi e chiassosi. Le sterline guadagnate in fabbrica servono per comprare un bel vestito, ubriacarsi e pagare da bere a una donna, ed è per questo che ad Arthur lavorare non pesa. Il lavoro è solo una lunga pausa tra un weekend e un altro e i movimenti ormai automatizzati che le mani svolgono al tornio consentono alla mente di vagare tra piaceri passati e futuri, legati in ogni caso alla possibilità di ubriacarsi e infilarsi nel letto di qualche moglie insoddisfatta. Cosa che puntualmente accade. La domenica ci si alza lentamente, magari ci si fa una birra nel pomeriggio prima di andare a pescare, e la sera ci si prepara psicologicamente alla settimana che inizia. La domenica mattina è il giorno dopo i bagordi e «Domenica mattina» è in maniera non casuale anche il titolo della più amara seconda parte del romanzo, dove Arthur si accontenta di adeguarsi al gruppo di «pecoroni» da lui sempre disprezzati e sceglie, convinto anche dal pestaggio organizzato ai suoi danni dai mariti turlupinati, di sposare la brava ragazza che tutti gli raccomandavano di trovare.

Nell’autobiografia Life Without Armour Alan Sillitoe racconta la sua infanzia a Nottingham prima della guerra. Racconta di suo padre ubriaco che picchia sua madre piegata sul lavandino in modo che il sangue non cada sul tappeto. Racconta dei problemi economici e di come sua madre sia stata costretta persino a prostituirsi per affrontarli. Racconta di come a quattordici anni abbia abbandonato la scuola e iniziato a lavorare attaccato al tornio in una fabbrica di biciclette. È chiaro che siamo di fronte a una biografia particolare: Sillitoe ha iniziato a scrivere solo perché si è beccato la tubercolosi durante il periodo da operatore radiofonico per la Marina inglese in Malesia. Deve stare due anni in un ospedale militare e non ha niente da fare. Inizia a leggere e poi da lì a scrivere. Il suo passato a Nottingham non è solo lo scenario in cui si muovono i personaggi ma è soprattutto l’idea di una netta contrapposizione tra un «noi» – operai, lavoratori, ladri, ubriaconi, disperati – e un «loro» – poliziotti, ufficiali giudiziari, politici, padroni, governatori di carceri e riformatori. «Se solo “loro” e “noi” avessimo le stesse idee fileremmo d’amore e d’accordo come due innamorati, ma loro non la pensano esattamente come noi e noi non la pensiamo esattamente come loro, così stanno le cose e così staranno sempre» (La solitudine del maratoneta).

 Quest’opposizione è raccontata in maniera sublime nel racconto lungo «La solitudine del maratoneta». Il racconto è un capolavoro di arte narrativa e di scrittura. Colin è stato beccato per un furtarello da niente. Il governatore, che ha visto in lui un potenziale corridore, gli propone di partecipare alla maratona del riformatorio e naturalmente Colin dice sì: «non mi dispiaceva troppo, a dirvi la verità, perché nella nostra famiglia si era sempre corso molto, soprattutto per sfuggire alla polizia» (e salta in mente la scena con cui si apre Transpotting, correre come ultimo appiglio per conservare la libertà). Gli viene infatti concesso di allenarsi tutte le mattine fuori dal riformatorio nelle strade di campagna avvolte nella nebbia mattutina. Mentre corre Colin pensa e mentre pensa racconta. E pensa che non vuole dare al direttore la soddisfazione di vantarsi con i suoi amici deputati, tutti «panciuti» e «dall’occhio bovino». E allora mentre corre e supera facilmente tutti i suoi avversari pensa che forse sì, è il caso di essere «onesti», ma onesti nel modo che intende lui. E allora si ferma a pochi metri dal traguardo e si lascia superare.


Un grande errore che si rischia di commettere sarebbe limitarsi a considerare questo tipo di scrittura come spaccato, o, peggio, come affresco della vita di una determinata classe sociale in un determinato periodo storico. È importante invece che questa scrittura venga valutata non esclusivamente per il suo valore documentario ma per quello letterario e narrativo.

Merito della scrittura di Alan Sillitoe non è quello di averci restituito un ritratto. È l’onestà, l’urgenza e l’energia che da lì traspare. L’orgoglio che si fa prima di tutto consapevole utilizzo di una lingua vernacolare, gergale e bassa e di un immaginario molto prosaico e legato alla materia. Non per questo la sua scrittura è arida. I personaggi disperati che popolano gli altri racconti della raccolta La solitudine del maratoneta (soprattutto «Zio Ernest» e «La decadenza e il crollo di Frankie Bueller») sono commoventi senza bisogno che l’autore utilizzi un briciolo di patetismo.

La letteratura working-class inglese non esisterebbe senza Alan Sillitoe. Irvine Welsh e recentemente Anthony Cartwright hanno pienamente raccolto la sua eredità. Sillitoe è stato criticato per il machismo testosteronico dei suoi personaggi maschili e per la caratterizzazione talvolta unidimensionale di quelli femminili. È effettivamente nella rappresentazione dei rapporti tra sessi che la sua scrittura fa più fatica a resistere al tempo. Ma Sillitoe può dirci qualcosa perché dimostra come parlando di fabbrica e di classe operaia, non subordinando la storia all’intento di denuncia, si possano ottenere libri sinceri, incolleriti, privi di moralismi, che raccontano la sconfitta nascosta dietro ogni compromesso e ogni tentativo di integrarsi («choose life») e che ci svegliano come se il boccale di Begbie fosse caduto in testa a noi.

 

Carlo Vidotto è nato a Roma nel 1992. Si è laureato in Italianistica all’Università di Bologna. 


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