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L'esordio prodigioso di Giovanni Arpino

In questa rubrica in collaborazione con minimum lab ospitiamo sul magazine articoli di approfondimento a cura dei nostri corsisti: Saverio Mariani ci racconta Sei stato felice, Giovanni di Giovanni Arpino.


di Saverio Mariani

Ci sono lettori a cui un romanzo deve restituire un po’ la carne cruda nel mentre si scotta sotto al sole. E deve far sì che ogni cosa sia utile a stimolarne un’altra nella memoria. Il romanzo d’esordio di Giovanni Arpino, nel fare tutto ciò, è un affastellarsi straordinario e affascinante di sensazioni, memorie, racconti, fame, solitudine e ricerca della felicità. Giovanni Arpino ha scritto Sei stato felice, Giovanni a ventitré anni, lo ha poi inviato a Elio Vittorini e dunque all’Einaudi. Siamo nel 1952 e il libro viene pubblicato dalla casa editrice torinese. Un esordio prodigioso e delicatissimo. Le principali caratteristiche di questo romanzo sono una narrazione a caduta, quasi senza contegno, un flusso di coscienza per poveri (e per questo stupendo), e il calore col quale Arpino scrive.

Giovanni, detto il Bello, è a Genova, trasferitosi dal Piemonte in questa città fatta di caruggi e un porto enorme, vicoli stretti e a picco sul mare («Aveva appena spiovuto e l’odore dei panni umidi era fresco e piacevole, unito a quello del mare che saliva dai vicoli nel vento» p. 28). Giovanni è lì, senza un soldo, senza un lavoro, con le ambizioni che non svalicano la giornata. E poi ci sono sempre gli amici, il vino, le puttane ad ore negli alberghetti da due soldi, i debiti che si accumulano. La precarietà è il cuore del racconto; una condizione conseguenza diretta della penuria economica, ma che è anche – subito – precarietà esistenziale. Giovanni percepisce la fragilità intrinseca a sé e alle cose, la continua possibilità di cadere in piedi sopra a uno scoglio appuntito col mare in burrasca. Proprio da questo punto di vista, tutto è importante e tutto diventa immediatamente niente

Finché non arriva Maria (non a caso un nome così evocativo): una donna matura, senza più il marito e della quale Giovanni si innamora. Le pagine che raccontano le loro uscite lungo il torrente, le passeggiate sconclusionate e i pranzi nelle trattorie (pagati coi soldi guadagnati da Giovanni con un lavoro pericoloso), sono le più belle del romanzo. Lì – come in tutto il libro – l’eco fortissima di Pavese è bella, intensa e non stona. Come in questo passaggio: «Era mattino con un cielo di carta grigia e liscia, l’alba ancora da venire, e sdraiato con la testa sul fagotto mi guardavo il cielo e l’ultimo piano dei caseggiati grandi del porto» (p. 32).

I paesaggi, descritti con un decadentismo poetico e romantico che non scade nella banalità, sono il pretesto e il contesto per la continua ricerca di un particolare, di una sfumatura. «Mi infilò un braccio intorno al collo e quel caldo della mano vicino all’orecchio mi fece chiudere gli occhi e respirare meglio. Pensai a cosa sarebbe successo tra un momento. Era magnifico sapere, essere sicuri convinti che il prossimo momento sarebbe stato bello, proprio come lo si poteva immaginare. Non mi era mai capitata una cosa simile. Il caldo della pelle e della mano era un caldo tenero, come succede di trovarlo certe notti». (p. 220) 

Di quest’ultime si occupa Arpino nell’ultima parte del romanzo: di ciò che sta a metà, di ciò che non è netto. La vita sembra doversi barcamenare nell’indefinito, nel non deciso: come il colore del mare che cambia a seconda della posizione del sole. In queste sfumature, però, guardando indietro, Giovanni ha sempre vissuto e lì “è stato (anche) felice”. Vorrebbe esserlo ancora un po’. C’è una canzone che mi tornava in mente mentre leggevo. S’intitola “Giovanni sulla terra” e l’ha scritta Niccolò Fabi. Il Giovanni di quella canzone ha paura che quello che sta compiendo sia “lo sforzo di un fesso”, ma poi si rende conto che “la cima appare sempre un po’ più su / e il sole brucia chi sta fermo, di più”. E allora riparte, ogni giorno.

Anche il Giovanni di Arpino, che alcune volte è stato felice, si guarda indietro e riparte. «Mi sentivo vuoto e buono senza pensieri, tutto ciò che era stato, era stato e basta, adesso era in ordine dietro di me, il resto sarebbe venuto, bastava non preoccuparsene troppo» (p. 255).


Saverio Mariani è nato a Spoleto (PG) nel 1990, dove vive e lavora. È laureato in filosofia, lavora nel mondo della comunicazione e dell'organizzazione teatrale. Redattore della rivista online Ritiri Filosofici, ha pubblicato il saggio filosofico Bergson oltre Bergson (ETS, Pisa, 2018). Un suo racconto, Lo sconosciuto, è stato pubblicato da minima&moralia. Scrive sul suo blog attaccatoeminuscolo.

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