Il vento ara il cielo
Nelle polverose campagne di Agrigento, dai rami di un albero pende una collana di acquamarina il cui contorno sembra ricordare l’immagine della Madonna: a Sabrina, ingenua ragazza muta che sembra destinata a un’esistenza miserevole, pare un miracolo (si rivelerà invece espressione di profana umanità). Conosceremo così la sua famiglia: l’arrivista padre-padrone Gregorio, in lotta perenne con suo cognato Calogero, comunista atipico, la moglie Liana e i due fratelli di Sabrina. Da questi sei personaggi parte una storia che, dal 1959 e per circa un decennio, da Agrigento a Palermo, incrocia persone realmente esistite – come il capo della mobile Cataldo Tandoy, morto in un agguato fatto passare per delitto passionale – e trae spunto da eventi accaduti successivamente – la costruzione della diga Garcia, oggetto delle mire dei corleonesi e teatro di omicidi – per raccontare la genesi della cosiddetta «borghesia mafiosa».
Dario Lanfranca, qui al suo primo romanzo, tesse con delicatezza una storia che dal particolare si allarga e inquadra il generale: la mafia come un gas inodore che permea qualunque cosa, detonatore di un cambiamento inevitabile. Sulle orme di Sciascia, porta alla luce gli effetti visibili e invisibili di questa intossicazione che non risparmia nessuno: e se anche i più insospettabili possono essere contaminati, a volte le cause perse sono capaci di ribaltare con un colpo di vento un destino che appariva segnato.
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