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Un'educazione letteraria: i libri di Gianluca Didino

In questa rubrica i nostri autori e le nostre autrici raccontano i libri che hanno contribuito a formare il loro immaginario: aspettando Essere senza casa. Sulla condizione di vivere in tempi strani, in uscita il 18 giugno, conosciamo meglio Gianluca Didino.   

La storia del mio rapporto con i libri è un percorso che va dalla chiusura all’apertura. Quand’ero adolescente, diciamo sui quindici o sedici anni, i libri erano una barriera, un confine eretto intorno a un mondo intimo. Può sembrare eccentrico, ma leggevo per lo più in uno sgabuzzino (piuttosto ampio, per la verità) che si apriva nella mansarda in cui c’era camera mia. Insomma i libri erano un mondo dentro il mondo dello sgabuzzino dentro il mondo della mia camera che si trovava nel mondo della casa dei miei genitori, come una specie di cittadella medievale protetta da un sistema di mura. Nella cittadella potevano entrare pochissime persone.

In quegli anni leggevo soprattutto Dostoevskij, i romantici (I tormenti del Giovane Werther, Coleridge) e i modernisti (Joyce, Svevo, Kafka). Intorno ai diciott’anni ho scoperto Pavese e Hemingway e, sull’onda del mito della wilderness americana, ho cominciato a leggere sempre più spesso all’aperto, nei campi di grano del Piemonte orientale che nella mia immaginazione somigliavano alle fattorie in cui George Milton e Lennie Small si guadagnano da vivere in Uomini e topi di Steinbeck. Il mio paese di provincia era una versione contemporanea della Winesburg di Sherwood Anderson. Di Hemingway portavo sempre appresso i Quarantanove racconti: avevo persino chiamato il coltellino che tenevo nello zaino Marjorie come la fidanzata di Nick Adams ne La fine di qualcosa, un titolo che sembrava inquadrare perfettamente il momento che stavo vivendo. Sognavo di costruire una capanna nei boschi, come Thoreau.

Nell’estate del 2004, quella in cui ho finito il liceo, mi sono ritrovato senza nulla da leggere. Siccome avevo appena preso la patente, invece di andare nella libreria del mio paese sono andato in quella del paese accanto, che era più fornita, a cercare qualcosa. In un cesto di occasioni in cui finivano i libri rimasti invenduti per troppo tempo ce n’era uno il cui titolo mi ha colpito per la sua brutalità, che suonava inconcepibile nel contesto del paesino affacciato sul lago in cui l’avevo trovato, tutto negozi di scarpe costose e fioriere di gerani (non stupiva che nessuno l’avesse comprato). Il titolo era Puttane assassine. Lo scrittore, Roberto Bolaño, era morto di recente e non era solo ignoto a me ma, allora, quasi del tutto sconosciuto in Italia.

Ho aperto a caso su un racconto che cominciava con queste parole: «Andai a Gómez Palacio in uno dei periodi peggiori della mia vita. Avevo ventitré anni e sapevo che i miei giorni in Messico erano contati». Come nel caso del racconto di Hemingway, mi pareva che quell’introduzione riassumesse perfettamente il momento della vita in cui mi trovavo. Pochi giorni più tardi, con quel libro in tasca, sono partito per un interrail durato quasi due mesi che avrebbe cambiato per sempre la mia vita.

Durante il primo anni di università invece credo che l’incontro letterario più importante sia stata la bibliografia secondaria di un corso di estetica che frequentavo a Palazzo Nuovo a Torino, una città dove mi ero trasferito in omaggio al mio passato pavesiano. La città era ostile, l’inverno freddo, il senso di minaccia dei romanzi di Bolaño mi pesava sempre in testa. Fumavo decisamente troppo. Non avevo molti amici e andavo in pellegrinaggio davanti all’Hotel Roma, dove Pavese si era tolto la vita nel 1950, o riflettevo su quanto facile fosse perdere la testa tra quelle architetture austere com’era capitato a Nietzsche, che diceva di trovare Torino balsamica per i suoi nervi ma proprio nella città piemontese era sprofondato in una follia irreversibile.

Quella primavera avevo avuto la buona idea di andare a preparare l’esame di estetica in una baita in montagna che mi era stata lasciata da un amico di famiglia. La mattina camminavo e il pomeriggio studiavo. Mi ero portato un solo disco (Halber Mensch degli Einsturzende Neubauten) ma molti libri. Linguaggio e silenzio di SteinerKafka: per una letteratura minore di Deleuze e GuattariL’origine dell’opera d’arte di Heidegger erano per il corso, mentre le Lettere a Milena e gli Aforismi di Züraru di KafkaL’imitatore di voci di Bernhard erano per lo svago. Tutti quei libri mi hanno segnato profondamente, in un modo o nell’altro.

Dopo, negli anni a venire, le relazioni letterarie sono diventate meno esclusive e più fluide. Incontri fondamentali sono stati quelli con l’opera di Jung, con Philip K. Dick (un altro dei pochi scrittori di cui ho letto tutto ciò su cui sono riuscito a mettere le mani), Georges Perec, Virginia Woolf, Raymond Carver, J.G. Ballard, Jennifer Egan, Tom McCarthy, W.G. Sebald, Mark Fisher, Alan Watts, Stephen King, James Hillman, ognuno per ragioni diverse.

Ho cominciato a leggere in maniera più frammentata, estrapolando i contenuti che più mi interessavano e ricombinandoli in maniera creativa. Ma a questo punto scrivevo già in maniera regolare, e quindi la nuova apertura nelle mie relazioni letterarie era anche una manifestazione del mutato rapporto con il testo scritto, che ora vedevo come il materiale di una continua rielaborazione.

Gli incontri letterari significativi sono come innamoramenti: sono inaspettati e hanno la capacità di cambiare la vita. Nei vent’anni che sono trascorsi da quei pomeriggi passati nello sgabuzzino il mio rapporto con la letteratura si è trasformato innumerevoli volte e mi aspetto che continuerà a trasformarsi. Mentre una volta i libri erano mura, ora sono porte verso un altrove. In fondo perché continuare a leggere se non per sperare che arrivi una nuova visione a mettere in discussione il nostro mondo, un’esplosione capace di aprirsi una breccia nella cittadella, portando quel lettore solitario e chiuso in sé stesso a confrontarsi con l’alterità?



(Foto: Alfons Morales - Unsplash)

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