"La sinistra che verrà": un contributo inedito di Saskia Sassen
La sinistra che verrà. Parole chiave per cambiare, a cura di Giuliano Battiston e Giulio Marcon, raccoglie ventidue interventi di studiosi italiani e internazionali: pubblichiamo la versione integrale del contributo inedito che Saskia Sassen ha scritto per l'Espresso in occasione dell'uscita del volume.
di Saskia Sassen
La sinistra lotta per una società più giusta, ma deve affrontare molti ostacoli. Uno degli ostacoli maggiori è la crescita di quelle che definisco come “formazioni predatorie complesse”. Adotto questa formula per enfatizzare alcune distinzioni cruciali, assenti perfino nella letteratura accademica critica sull’economia politica, di ambito sia nazionale sia internazionale.
Anche se viene usato un linguaggio differente, nel libro La sinistra che verrà queste distinzioni vengono colte. Lo si vede nell’introduzione di Giulio Marcon, nella nota ai testi di Giuliano Battiston e, più in generale, nella stessa scelta degli autorevoli studiosi chiamati a contribuire. Il termine “predatorio” non viene usato in modo esplicito dai curatori né dagli autori delle 22 parole-chiave raccolte nel libro, ma è particolarmente importante: riesce a restituire in modo efficace la violenza che sottintende quel che nella maggior dei casi è descritto con un linguaggio più delicato, indiretto.
Un primo aspetto che emerge dalla “nota ai testi” di Battiston e dalle parole-chiave selezionate è infatti che la complessità delle dinamiche negative del capitalismo contemporaneo ne camuffa facilmente il carattere predatorio: spesso, nel caso nell’economia politica attuale, non c’è quella brutalità che risulta auto-evidente in una fabbrica che sfrutta i lavoratori o in una miniera. Al contrario, le componenti centrali delle “formazioni predatorie” includono elementi caratteristici di molte delle più ammirevoli forme di conoscenza che siano state prodotte dall’uomo: riflessioni filosofiche raffinate, versioni avanzate del diritto, sistemi di contabilità ricavati dagli algoritmi matematici, efficienti strumenti della logistica, e via dicendo.
Cerco di spiegarmi meglio. Come possiamo facilmente immaginare, le formazioni predatorie includono le élite più potenti, coloro che detengono il capitale, ma perfino loro rappresentano fattori parziali - soltanto parziali - nel più ampio funzionamento delle formazioni predatorie. Per descrivere questo fatto in modo efficace, in genere ricorro a questa spiegazione: anche se le élite più potenti e i detentori del capitale sparissero da un giorno all’altro, ciò non eliminerebbe ipso facto le formazioni predatorie, molto più complesse; se le élite venissero sconfitte, ciò non neutralizzerebbe in modo automatico le concentrazioni di potere e di vantaggi che caratterizzano l’attuale periodo.
Come ho spiegato nel libro Espulsioni. Brutalità e complessità nell’economia globale (Il Mulino 2015), i principali detentori del capitale, i più influenti manager aziendali condizionano senz’altro il modo in cui è modellata l’economia, ma da soli non sarebbero mai riusciti a ottenere l’estrema concentrazione di ricchezza e il potere assoluto di cui dispongono nel mondo. Processi riconducibili, invece, alle formazioni predatorie.
Le formazioni predatorie sono un assemblaggio di elementi diversi, individui potenti e ricchi, aziende e corporation, governi (in particolare i rami esecutivi, divenuti più forti con la globalizzazione, e non più deboli come si tende a credere), innovazioni tecniche, legali e finanziarie, nuovi spazi operativi. Elementi guidati da una logica che crea crescenti capacità sistemiche che producono esiti negativi: in alto, grandi acquisizioni di potere e capitale; sul piano ambientale, distruzioni su una scala mai vista finora; sul piano sociale, una crescita significativa dei processi di espulsione delle persone dall’ambito delle opzioni di vita ragionevoli, perfino nei paesi ricchi, quei paesi in cui per lungo tempo ha prevalso una logica opposta, inclusiva. Si tratta degli stessi esiti di cui parlano, pur con un linguaggio diverso e secondo prospettive differenti, alcuni degli studiosi che hanno contribuito a La sinistra che verrà.
Penso per esempio alle parole-chiave di Wolfgang Sachs e Vandana Shiva sulla questione ecologica; al testo dell’economista statunitense James K. Galbraith sulla disuguaglianza economica; a quello del sociologo portoghese Boaventura de Sousa Santos sull’esclusione sociale e la fine del contratto sociale; alla riflessione del giurista italiano Luigi Ferrajoli sulla democrazia in crisi. Modi e traiettorie diverse per descrivere gli esiti nefasti delle formazioni predatorie, che hanno una caratteristica comune: sono sistemiche.
Non si tratta soltanto di singoli accaparratori di potere. Ma di formazioni che si sono costituite attraverso l’incorporazione di elementi propri dei domini centrali delle nostre economie e delle nostre società. E che, come già detto, includono pezzi importanti delle conoscenze e delle capacità organizzative sviluppate finora dagli esseri umani. Potremmo caratterizzare questo aspetto sistemico e predatorio con l’immagine di un invasore che viene, conquista, afferra e se ne va con il bottino, piuttosto che adoperare ciò che ha agguantato per costruire almeno qualcosa di nuovo nei luoghi del saccheggio.
C’è un altro aspetto importante. Le formazioni predatorie operano perlopiù al di là della portata delle risposte politiche convenzionali, in particolare a causa della tendenza in ambito istituzionale a funzionare per silos isolati, per ambiti esclusivi, ognuno per ogni singolo settore e attività. In netto contrasto, le formazioni emergenti di cui parlo attraversano i domini tradizionalmente isolati, e riassemblano pezzi di ogni dominio all’interno di formazioni nuove. I saggi raccolti in La sinistra che verrà ci aiutano a comprendere i diversi vettori attraverso i quali sono venute consolidandosi le formazioni predatorie.
Un pregio importante, perché nelle analisi e nei commenti sull’economia politica contemporanea in genere prevale la tendenza opposta: separare ciò che è “alto”, i momenti più complessi della nostra conoscenza e delle nostre capacità operative, dal “basso”, i più elementari esempi di degradazione fisica.
Nel libro curato da Battiston e Marcon invece si tengono insieme i due piani, e si evidenzia il legame tra le formazioni complesse e gli esiti brutali che ne derivano. Prendiamo una delle maggiori formazioni predatorie dei nostri tempi, e una delle più complesse, la finanza, l’alta finanza. In genere tendiamo a interpretarla come un particolare insieme di componenti sofisticate: usi avanzati delle tecnologie digitali, la matematica della fisica piuttosto che quella più elementare dell’economia standard, menti brillanti all’opera, e via dicendo. Una lettura corretta, ma parziale. Che diventa completa soltanto se teniamo conto anche della degradazione fisica che deriva dall’alta finanza. Per farlo, dobbiamo espandere la comprensione della finanza, così da ottenere un assemblaggio di elementi più inclusivo e aperto di quanto non avvenga negli studi di settore. Una volta stabilito questo dominio “espanso” della finanza, ci accorgiamo che perfino gli strumenti finanziari più complessi e articolati possono includere nel loro processo di costruzione alcuni passaggi molto elementari e brutali, producendo esiti socio-economici estremamente negativi.
Rimane poi la questione centrale, a cui i curatori del libro cercano di rispondere. Di fronte a simili formazioni predatorie, la sinistra cosa deve fare? Io credo che combattere o eliminare le formazioni predatorie richieda innanzitutto una precisa volontà politica. La volontà di disarticolarle, di disassemblarle, perfino di distruggerle. La sinistra dovrebbe puntare a questo, piuttosto che abdicare alle proprie responsabilità, facendosi scudo della possibilità che le formazioni predatorie si auto-distruggano, sulla base della tendenza ad abusare del proprio potere. Ma in attesa che la battaglia contro le formazioni predatorie diventi politicamente prioritaria, cosa fare?
Un passaggio fondamentale è riconoscere che abbiamo a che fare con un nuovo tipo di minaccia, un nuovo mostro, diverso da quelli che lo hanno preceduto. Ci sono certo alcune similitudini con il passato, ma esistono differenze essenziali. Ecco perché insisto spesso nel dire che la crescita delle formazioni predatorie eccede il perimetro delle discussioni attuali sulla crescita delle disuguaglianze e sulla crescente concentrazione di potere e ricchezza. Il linguaggio sulla “maggiore disuguaglianza”, sulla “maggiore povertà” è insufficiente, incompleto: ci sono delle vere e proprie rotture in corso, sotterranee ma fondamentali. Non si tratta soltanto di un “di più” della stessa cosa.
Siamo di fronte a un’imponente e diversificata serie di espulsioni, che segnala una più profonda trasformazione sistemica, una nuova fase del capitalismo e della distruzione globale. Opaca, ma brutale. La sfida, allora, è rendere più trasparente ciò che è opaco, esplicito ciò che è ancora sotterraneo. È quel che suggerisco nel mio saggio incluso in La sinistra che verrà, dedicato ai processi di globalizzazione e alla decadenza dell’economia politica del ventesimo secolo, iniziata negli anni Ottanta del Novecento, quando con la finanziarizzazione dell’economia si indeboliscono progressivamente i presupporti egalitari e keynesiani alla base del progetto di costruzione di una società giusta, anche se imperfetta, e comincia a emergere una nuova dinamica, quella dell’espulsione.
Alla fine del testo enfatizzo un punto centrale: l’importanza di capire, e ri-raccontare, il processo in corso, le strutture che hanno reso possibile l’ascesa delle formazioni predatorie, di cui dobbiamo ricostruire la genealogia e il funzionamento, tanto complesso quanto opaco. È un’operazione preliminare fondamentale, perché se non conosciamo ciò contro cui lottiamo, non possiamo individuare i mezzi adatti per combatterlo.
Dove possibile, inoltre, dobbiamo uscire dalla zona di dominio delle formazioni predatorie. Come? Lavorando in direzione contraria a quella verso cui ci spingono. Creando forme di solidarietà trasversali, tra località e comunità diverse. Assumendo la cooperazione come principio sociale prioritario, come suggerisce Richard Sennett nel testo incluso nel libro. Generando un nuovo modo di pensare, una nuova forma di società, una diversa temporalità, come auspicano altri due autori di La sinistra che verrà, Serge Latouche e Wolfgang Sachs. E rendendo concettualmente e politicamente visibili gli spazi di chi è stato espulso, dai migranti (come spiega Seyla Benhabib) ai precari (come spiega Guy Standing). Quegli spazi – l’ho scritto nel libro e torno a ripeterlo – non sono una sorta di buco nero. Al contrario, sono ricchi di presenze tangibili. E sono i nuovi spazi in cui agire e fare politica.