Ius soli e cittadinanza: due estratti per rifletterci su

Foto: AnnaKate Auten


Cittadinanza
di Cristina Mattiello

da Piccolo Lessico del Grande Esodo. Ottanta lemmi per pensare la crisi migrante
a cura di Fabrice Olivier Dubosc e Nijmi Edres

Valerio ha sedici anni. È nato in un ospedale romano e non ha mai lasciato la città. Eppure è un fantasma, burocraticamente parlando. Può solo sperare, con la maggiore età, di diventare «apolide». Sua nonna è venuta dal Montenegro negli anni Novanta del secolo scorso, con la grande ondata di rom che fuggivano dall’ex Jugoslavia in disgregazione. Vittime predestinate di ogni pulizia etnica, una volta qui, i rom avrebbero avuto diritto allo status di rifugiati, ma furono considerati «nomadi», zingari, e chiusi nei campi. Non avranno mai la possibilità di esibire tutti i requisiti necessari per essere riconosciuti cittadini italiani (permesso regolare dei genitori e iscrizione nel loro stato di famiglia senza interruzione).

La presenza in Italia di Valerio dalla sua nascita non conta. I certificati delle vaccinazioni e quelli delle presenze a scuola sono carta straccia per la burocrazia. Come si sentirà Valerio, rifiutato dal paese in cui è nato e sempre vissuto, lui che il Montenegro non l’ha mai visto e che non è riconosciuto neanche lì? E i cuginetti – quattro anni e otto mesi – nati entrambi qui da una madre nata a sua volta in Italia?

Il termine di diritto romano civilitas (cittadinanza) rimanda a civitas, città. Civitas e non urbs, la città intesa in senso fisico, fatta di edifici e mura. Così cittadinanza significa appartenenza, riconoscimento della nostra esistenza all’interno di una comunità di cittadini. E naturalmente l’origine dell’idea è greca: nella polis i cittadini avevano davvero potere di deliberare. Ma la piena cittadinanza di alcuni era possibile solo con l’esclusione di molti (gli schiavi, le donne).

A tutt’oggi il prezzo di una società unitaria (il preziosissimo «consenso») implica la rimozione o la legittimazione delle esclusioni. Dalla rivoluzione francese in poi, cittadino si contrappone a suddito. Ma nell’era delle nazioni moderne all’idea di cittadinanza come diritto si associa sempre più quella di appartenenza nazionale. È con il cittadino che lo Stato-nazione instaura un rapporto giuridico fatto di diritti e doveri. La cittadinanza per non essere una finzione deve poter essere sociale, cioè rivendicare, mettere al mondo, anche con il conflitto, diritti che non c’erano ancora.

Secondo Étienne Balibar non c’è cittadinanza senza democrazia, intesa come capacità di sostenere conflitti generativi. Tuttavia negli ultimi trent’anni questo nesso che contemperava, tra l’altro, consenso e conflitto è venuto a mancare.

Nuove frontiere della cittadinanza potrebbero nascere proprio da nuovi conflitti sviluppati a partire dalla consapevolezza di nuove esclusioni e dall’aspirazione diffusa a colmare il ritardo delle democrazie nei confronti delle sfide contemporanee. Al di là delle retoriche di un certo multiculturalismo, in uno stesso Stato-nazione non tutti sono cittadini. E tali sfide non sono più risolvibili a partire della riduzione della cittadinanza all’identità nazionale.

La storia di Valerio è un caso limite, certo. In Italia e in Europa però casi come questo sono sempre più frequenti. Il clima politico-istituzionale consente abusi di ogni genere a livello locale: domande irregolarmente respinte, richieste arbitrarie di documenti di difficile reperimento, denunce che si moltiplicano. La richiesta sulla cittadinanza prevede iter complessi, spese rilevanti, tempi lunghissimi (730 giorni al massimo in teoria, ma fino a cinque anni in pratica – e se scadono i documenti bisogna ricominciare da capo). Nel frattempo chi perde il lavoro, e quindi il permesso di soggiorno, rischia l’espulsione.

Un cartello di associazioni laiche e religiose, «Italia sono anch’io», ha raccolto le firme per una legge di iniziativa popolare, basata su uno ius soli leggermente moderato per aver buone possibilità al voto. Ma non si è arrivati a discuterla. La discussione al Senato di una proposta di legge prudentissima, approvata alla Camera, è stata rinviata. Introduceva parametri obbligatori, soglie all’origine, come un certo livello di istruzione e addirittura un reddito minimo. Ma per ora neanche questa legge minimale è stata approvata.

Forse la «clandestinità» fa troppo comodo per cercare di contenerla. Eppure solo una seria riflessione associata a nuove pratiche di cittadinanza potrebbe depotenziare sia il razzismo sia le derive fondamentaliste e nichiliste, sia tra i giovani italiani sia tra i ragazzi di seconda generazione.


Ius soli
di Tomaso Montanari

da Istruzioni per l'uso del futuro. Il patrimonio culturale e la democrazia che verrà

I compagni di classe dei miei figli si chiamano Lorenzo e Tommaso, ma anche Vincent e Pawan; si chiamano Elena, Caterina o Mattia, ma anche Whalidh e Danna. E i loro nomi fanno subito capire che alcuni sono nati in Italia, altri no. Ma vanno tutti alla stessa scuola: una scuola pubblica (cioè di tutti, e per tutti), che si chiama «Francesco Petrarca». Per andarci, camminano in una strada antica, e di fronte alla scuola c’è una chiesa costruita trecento anni fa, piena di quadri e di statue in parte anche più antichi. È un quartiere decisamente popolare, ma, se prima di entrare a scuola alzano lo sguardo, quei piccoli vedono la collina verde di Monte Oliveto, con i suoi cipressi e il campanile svettante di San Bartolomeo, la chiesa cui appartenne l’Annunciazione di Leonardo da Vinci, oggi agli Uffizi.

Quando questi bambini usciranno da quella scuola saranno tutti cittadini italiani. Lo saranno di fatto, anche se non per legge (una legge sbagliata). Lo saranno grazie al lavoro delle loro maestre, che sono bravissime (anche se quasi nessuno lo scrive, e anche se sono pagate pochissimo). Lo saranno perché impareranno a parlare l’italiano di Francesco Petrarca. Lo saranno perché ogni giorno avranno camminato per quella strada antica, e avranno visto (anche se magari distrattamente) quella chiesa, quelle statue, quei quadri, quei cipressi. E non è questione di «identità», né tantomeno di nazionalismo fuori tempo massimo. Non siamo mai stati una nazione «per via di sangue»: non c’è nazione più meticcia di quella italiana, eterna preda dei più diversi conquistatori. Semmai lo siamo stati, e lo siamo, per cultura.

Negli stessi versi dell’XI canto del Purgatorio in cui Dante mette in chiaro che Guido Guinizzelli, Guido Cavalcanti e poi soprattutto lui stesso hanno la gloria di aver fondato la lingua italiana, vengono esaltati i padri dell’altra lingua degli italiani, Cimabue e Giotto. La lingua monumentale dell’arte è quella che ha reso unico al mondo, e inconfondibile, il suolo, cioè il territorio, dell’Italia: e che, lungo i secoli, ha reso noi tutti «italiani» per purissimo ius soli culturale.

D’altra parte, una delle pochissime volte che la Costituzione utilizza la parola nazione è proprio quando prende atto, all’articolo 9, che questa preesiste alla Repubblica proprio grazie al «paesaggio e al patrimonio storico e artistico». In questo modo la Costituzione ha spaccato in due la storia dell’arte italiana, assegnando al patrimonio storico e artistico della nazione una missione nuova al servizio del nuovo sovrano, il popolo.

La storia dell’arte è in grande parte la storia dell’autorappresentazione delle classi dominanti, e per un lungo tratto i suoi monumenti sono stati costruiti con denaro sottratto all’interesse comune. Ma la Costituzione ha redento questa storia: le ha dato un senso di lettura radicalmente nuovo.

Il patrimonio artistico è divenuto un luogo dei diritti della persona, una leva di costruzione dell’eguaglianza, un mezzo per includere coloro che erano sempre stati sottomessi ed espropriati. Entrando nei musei, le opere del passato hanno perso la loro funzione originaria (politica, religiosa, dinastica...) acquistandone una puramente culturale (forse più alta, forse più libera: certo diversa). Esse sono uscite anche dal flusso degli scambi economici, e dalla arbitraria disponibilità dei potenti: ora non sono più in vendita, e grazie alla Costituzione appartengono a tutti i cittadini italiani, e, in maniera più lata, a tutta l’umanità.

Se impareranno a parlare la lingua di Palazzo Vecchio o della Cappella Brancacci, Pawan e Whalidh non abbracceranno la storia delle istituzioni occidentali o la religione cattolica, e nemmeno la storia dell’arte italiana, ma i valori inclusivi, tolleranti e aperti della Costituzione. Non si vincoleranno alle «radici» della identità collettiva italiana, ma accetteranno di fluire nelle acque – felicemente impure, mescolate, contaminate – della tradizione culturale italiana.

I grandi e i bambini che cercano disperatamente di toccare la terra di Lampedusa, e di entrare in Italia, vogliono far parte di questa comunità, camminare nelle nostre strade, frequentare le nostre scuole, vivere nel nostro paesaggio. Vogliono mescolare le loro acque con le nostre. Lampedusa è bellissima: ma quella bellezza non ha alcun senso, cioè non serve a nulla, se non diventa la porta di una terra capace di accogliere nuovi cittadini.

Un filo diretto lega ciò che accade sulla spiaggia di Lampedusa a ognuna delle opere d’arte che amiamo, a ognuno dei tramonti sul nostro paesaggio preferito: se ce lo dimentichiamo, non abbiamo capito niente di quella bellezza. Mai come oggi questo suolo unico al mondo può, e anzi deve, generare nuovi cittadini.


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