intervista

Futuromania: il traduttore Michele Piumini intervista Simon Reynolds

È in libreria Futuromania. Sogni elettronici da Moroder ai Migos: ne approfittiamo per pubblicare questa bella chiacchierata tra il traduttore Michele Piumini e Simon Reynolds. Buona lettura!


di Michele Piumini


Il mio primo contatto diretto con Simon risale più o meno al 2006, subito dopo la traduzione di Post-punk 1978-1984. Ricordo di aver esordito con un timoroso “Dear Mr. Reynolds”, non sapendo ancora quanto fosse un tipo umile e alla mano. Non a caso mi ha risposto “Hi Michele”, e da allora è sempre stato “Simon”. Dopo essermi presentato, gli ho chiesto come mai il suo libro sul post-punk non citasse mai i Police (il mio gruppo preferito, per inciso), dato che l’arco temporale da lui preso in considerazione coincideva grosso modo con la loro carriera. Mi ha risposto gentilmente e comprensibilmente che, non potendo parlare di tutti, aveva dovuto fare delle scelte. Post-punk è l’unico libro di Simon che non ho tradotto lavorando insieme a lui. Traducendo Hip-hop-rock, Retromania, Polvere di stelle e Futuromania, ho avuto il piacere e il privilegio di potergli chiedere tutto quello che volevo. Lui non solo rispondeva in modo esauriente, ma aggiungeva impagabili retroscena sulla scrittura del libro in questione, sui suoi incontri con gli artisti e così via. Ma il “modus operandi” che abbiamo sviluppato insieme nel corso degli anni non si limita a questo.

Per chi scrive libri lunghi e straordinariamente dettagliati come quelli di Simon, è umanamente impossibile non fare piccoli errori (refusi, spelling dei nomi, date, ecc.). Io non controllo certo tutto ciò che scrive, ma a volte mi capita di farlo, e preparo una lista degli errori che trovo. A traduzione finita gliela mando, e lui è sempre molto grato, al punto da inserirmi, dieci anni fa, nei ringraziamenti di Retromania. E così mi sono trovato a vivere l’esperienza surreale, stile La storia infinita, di dover tradurre una frase che parlava di me e conteneva il mio nome.

A tutt’oggi ho tradotto cinque libri di Simon. L’unico altro scrittore di cui ho tradotto cinque libri è Jack Kerouac. Quando Simon scriverà il prossimo, sono certo che a Jack non dispiacerà cedergli il primo posto. E così arriviamo a Futuromania.

Confesso che una volta avevo dei pregiudizi verso la musica elettronica: qualsiasi suono non prodotto da un essere umano con uno strumento non era musica per le mie orecchie. Per fortuna, sono riuscito a superarli. Il primo album interamente elettronico che abbia mai comprato è Unrest di Erlend Oye, che ancora oggi adoro. Dopodiché, mi è sembrato giusto approfondire i progenitori, e prevedibilmente mi sono innamorato dei Kraftwerk. Futuromania mi è stato di enorme aiuto nell’ampliare la mia conoscenza e il mio apprezzamento della musica elettronica. Ammetto che alcune cose non riesco ad ascoltarle, ma il capitolo sulla “musica elettronica femminile”, per esempio, è stato una rivelazione: The Kid di Kaitlyn Aurelia Smith e Histrionic di Maria Minerva sono album di cui non posso più fare a meno.


Per cominciare, com’è nata la tua passione per la musica elettronica? E potresti raccontare la genesi di Futuromania, il tuo primo progetto (che io sappia) specificamente pensato per l’Italia?

Simon: Michele e io lavoriamo molto bene insieme. È sempre al contempo mortificante ed entusiasmante quando il suo occhio vigile trova un errore, perché posso fare in modo che venga corretto nelle edizioni successive del libro o nelle traduzioni in corso in altri paesi. Mi piace discutere delle scelte lessicali, perché le sfumature di significato, gli echi allusivi e la stessa musicalità della prosa sono difficili da tradurre, ma anche perché una sorprendente quantità delle cose che faccio in quanto scrittore è istintiva, perciò spesso non sono consapevole dei livelli e delle risonanze che mi portano a scegliere una parola o un’espressione particolare. Sviscerare questo processo è divertente. Naturalmente non sono in grado di leggere le traduzioni di Michele, ma mi dicono che fa un ottimo lavoro.

Come per molti inglesi della mia generazione, il mio vero battesimo della musica elettronica fu la sigla di Doctor Who, il telefilm di fantascienza, composta da Ron Grainer e registrata da Delia Derbyshire. Il gelido brivido alieno della musica ti preparava per quello che era – almeno per i bambini – un programma davvero spaventoso e inquietante. Una delle mie ossessioni più recenti sono l’animazione sperimentale e gli stravaganti cartoni animati degli anni ’60 e ’70, che raccolgo sul blog Dreams, Built By Hand. Esplorare quel mondo mi ha permesso di capire fino a che punto la musica elettronica è penetrata nel nostro inconscio attraverso la TV per bambini. Nel Regno Unito, la maggior parte di quei suoni arrivava dal BBC Radiophonic Workshop, per il quale lavorava Derbyshire.

Il primo momento “wow!” in termini pop fu «I Feel Love» di Donna Summer nel 1977. I sintetizzatori non erano una novità nel pop e nel rock, ma avevano sempre avuto un tipo di musicalità jazzy, funky e improvvisata: ti accorgevi che c’era sotto un essere umano che suonava una tastiera con espressione. Ma con la produzione di Moroder e Bellotte per «I Feel Love», la sensazione era che le macchine avessero preso il sopravvento. C’era qualcosa di implacabile e post-umano in quei ritmi sequenziati. Da allora ho sempre seguito la musica elettronica, sia la dance che gruppi come i Suicide e i Soft Cell. Ma penso che si sia trasformata in una parte dominante della mia vita di ascoltatore musicale all’inizio degli anni ’90, quando sono diventato un raver. È a quel punto che le chitarre hanno cominciato a scomparire per me.

Il libro è nato da un’idea di Valerio Mattioli, che voleva pubblicare un volume con i miei articoli sull’hardcore continuum (l’albero genealogico di generi come jungle, UK garage, grime, etc.) per una casa editrice con cui collabora. Ma minimum fax ha preferito che il tutto rimanesse “in famiglia”, e così è nata questa ampia raccolta dei miei scritti sulla musica elettronica. È stata concepita specificamente per l’Italia, ma in seguito uscirà anche in Giappone e in Germania, benché in forma radicalmente diversa. Da subito ho voluto inserire in Futuromania alcuni scritti sulle forme di pop (e non pop) elettronico non legate alla cultura dance, il che spiega come mai parla dei Tangerine Dream e di Jean-Michel Jarre, ma anche di compositori d’avanguardia come Bernard Parmegiani. E c’è anche parecchia musica nera, come la dancehall e la trap, che pur essendo di matrice essenzialmente elettronica/digitale per qualche ragione viene fatta rientrare di rado nella storia della musica elettronica.

Michele: In quanto traduttore che ha esordito circa vent’anni fa, a volte mi ritrovo a pensare ai miei colleghi dell’era pre-internet. Era senz’altro un lavoro più difficile e lento rispetto a oggi, ma non riesco a non chiedermi se dover cercare con pazienza informazioni che oggi sono a portata di click non lo rendesse più gratificante. Di sicuro era più sano, perché per fare ricerche dovevi alzarti dalla sedia e andare (per esempio) in biblioteca, invece di rimanere tutto il giorno davanti al computer. Non che mi dispiaccia vivere e lavorare in questa epoca, soprattutto in quanto traduttore di libri musicali: quando traduco un tuo libro, i miei orizzonti musicali si allargano immensamente, ma solo perché tutte le canzoni di cui parli sono disponibili su YouTube o Spotify. Oltre che delle musiciste elettroniche di cui sopra, grazie a te mi sono innamorato di artisti come A.R. Kane e Ariel Pink, per citarne solo due.

In quanto critico musicale che ha esordito prima dell’avvento di internet, preferisci il tuo lavoro oggi o c’è qualcosa che ti manca dell’era pre-WWW? Ricordo un passaggio di Retromania in cui dici che avere YouTube mentre scrivevi Post-punk sarebbe stato una manna dal cielo e una rovina al tempo stesso.

Simon: All’epoca, in quanto giovane insaziabile avrei dato qualsiasi cosa per avere l’accesso alla musica che oggi è consentito a tutti noi. Ma c’è un detto in inglese: be careful what you wish for! (Attento a quel che desideri!) Avere a disposizione una quantità e una varietà musicale pressoché illimitate non è l’utopia che avrei immaginato, perché il risultato è che ascolto un’infinità di cose, ma una volta sola. Di conseguenza, oggi è molto più difficile immergersi nella musica e scoprirla a fondo, cosa che puoi fare solo se ascolti un disco tante volte e per un lungo periodo, permettendogli di radicarsi nella tua vita.

Ancora oggi, i dischi che conosco meglio sono più che altro quelli di quando avevo 16, 17 e 18 anni, e all’epoca di dischi ne avevo una ventina in tutto. Be’, in realtà quando ho cominciato ne avevo uno solo: Do It Yourself di Ian Dury. Ma ci sono dischi come Metal Box dei PiL, Cut delle Slits e Remain in Light dei Talking Heads che conoscevo a memoria. Eri limitato da ciò che potevi permetterti di comprare, vale a dire, per me come per la maggior parte degli altri giovani, molto poco. Potevi ampliare il panorama degli ascolti registrando cose dagli amici o dalla biblioteca di quartere, se aveva una sezione dischi, ma anche le cassette vergini costavano. Insomma, quei limiti imponevano un ascolto ricco e profondo, perché ascoltavi a ripetizione un numero ridotto di dischi.

Oggi sono sopraffatto dalla sovrabbondanza dei servizi di straming, da ciò che puoi trovare su YouTube e Bandcamp e sui blog specializzati in musica oscura. Mi ritrovo a fare playlist infinite che poi non riesco nemmeno ad ascoltare! Stesso discorso per i film, la TV, le cose da leggere. Una volta eri limitato da quante riviste potevi permetterti di comprare, consultare in biblioteca o leggere frettolosamente in edicola. Oggi abbiamo a disposizione una quantità folle di giornalismo in inglese. Ho cartelle piene di articoli che copio e incollo da internet per leggerli in un secondo momento, ma non lo faccio mai. YouTube in particolare è al tempo stesso un tesoro e un pantano. Quando ho scritto Post-punk non esisteva ancora, perciò quasi tutti i video e le apparizioni televisive che descrivo nel libro erano basati sui miei ricordi. I quali si sono dimostrati sorprendentemente accurati, quando poi ho rivisto tutto su YouTube qualche anno dopo. Ma se l’avessi avuto a disposizione mentre scrivevo il libro, avrei potuto senz’altro perdermi a guardare i filmati dei gruppi, prendendo appunti su immagini, abbigliamento e gesti. Il che avrebbe generato molto più materiale, per un libro che è già piuttosto lungo.

Michele: Hai una routine di lavoro fissa, ed è cambiata molto negli anni? Ascolti sempre musica mentre scrivi? Ascolterai senz’altro le cose di cui stai scrivendo, ma usi la musica anche come sottofondo? Io lo faccio mentre traduco, ma per qualche ragione ho bisogno di silenzio assoluto quando rivedo il mio lavoro prima di inviarlo all’editore.

Simon: In realtà non ho una routine fissa, perché dipende dal tipo di lavoro che mi aspetta quel giorno. Magari devo intervistare un artista, o a volte capita che intervistino me su un libro, o per un commento in un articolo di un altro giornalista. La differenza fondamentale rispetto a quando ho cominciato a fine anni ’80 è che ora passo molto più tempo in casa. Una volta facevo quasi tutte le interviste di persona, il che significava andare in giro. Dopo il 2000, sempre più spesso ho fatto interviste telefoniche, via Skype e a volte via email, un metodo che in realtà non apprezzo, perché si perdono l’intensità e il botta e risposta. Durante il lockdown, ovviamente, le interviste in presenza erano impossibili.

Il principale elemento di continuità fra i vecchi tempi e oggi è l’enorme quantità di tempo che perdo. Potrà sembrare inverosimile, dal momento che ho scritto nove libri e un flusso ininterrotto di saggi, reportage e recensioni, e ci sono stati periodi in cui scrivevo una quantità impressionante di articoli per i miei blog. A prima vista sembro molto indaffarato, ma non crederesti a quanto tempo perdo su internet e sui social media. Passo ore a seguire le notizie nei minimi dettagli, l’orrore politico infinito dell’era Trump, ma ho seguito ossessivamente anche il dramma dei laburisti di Corbyn e della Brexit. Ore e ore che se ne vanno in “ricerche” e raccolta di materiale online: articoli che non leggerò mai, musica che non ascolterò mai. Di recente, mi sono concentrato sui video pop vintage e sull’animazione sperimentale.

Uso delle app per impedire o limitare l’accesso a internet, ma esistono modi per aggirarle, e poi nel computer ho una quantità sterminata di materiale che posso usare per rimandare il lavoro. Ma non si tratta di problemi nati con l’era di internet a banda larga. Prima avevo altri metodi: guardare MTV (ai tempi in cui era ancora un’emittente musicale) e altri canali pop come VH1 e BET, sfogliare libri musicali, rileggere riviste o libri sulla musica (o sulla teoria critica). L’idea era accettare il fatto che avrei lavorato poco fino all’avvicinarsi della scadenza, e allora perché non leggermi un buon romanzo (o fare una passeggiata)? La logica del rinvio presuppone che per rimandare il lavoro si utilizzino cose che siano concettualmente legate al lavoro, o quanto meno all’obiettivo di “rimanere informati”. In altre parole, non possono essere puro divertimento, devono avere una patina illusoria di “virtù” o quasi-produttività. Ascolto musica in continuazione, perché c’è così tanta musica da ascoltare. Di solito, quando scrivo su un particolare argomento, ascolto l’artista in questione o altri che gli sono in qualche modo affini. Altrimenti, se ho bisogno di una scarica di energia, ascolto la jungle o qualcosa di simile degli anni ’90.

Il problema del lavorare ascoltando musica è che o sei molto concentrato sul lavoro e non senti quasi la musica, o sei completamente assorbito dalla musica e il ritmo del lavoro rallenta enormemente. Spesso è una via di mezzo: non lavori bene e non sei del tutto immerso nella musica. Se aggiungiamo le interruzioni per navigare su internet, la tentazione di controllare o scrivere le email, aprire Twitter, ecc., il tutto è molto frustrante. Un’esistenza nervosa, uno stato tutt’altro che di grazia. È incredibile che io riesca a produrre qualcosa di simile a un pensiero interessante o una frase ben formulata in queste circostanze. (In realtà, molte delle idee migliori mi vengono sotto la doccia, mentre cucino o mentre passeggio.) Le cose andavano meglio quando avevamo solo un foglio infilato nella macchina da scrivere e internet era ancora un’oscura rete che collegava poche università e organizzazioni militari.

Michele: L’inglese per me è sempre stato la lingua della musica. Non esagero troppo se dico che metà del mio inglese lo devo a Sting e ai Beatles. Da quando lo studio, e più ancora da quando faccio il traduttore, ho cominciato a vederlo non solo come la lingua della musica, ma anche come, per così dire, la musica della lingua. Ogni linguaggio è di per sé musicale, ovviamente, ma direi che il mio amore per la musica, per il linguaggio in quanto tale (sono laureato in linguistica) e per l’inglese in particolare hanno creato un nesso inestricabile fra la musica e l’inglese. Il che probabilmente è una delle ragioni fondamentali per cui sono diventato traduttore. Quando traduco libri di musica come i tuoi, ho a che fare sia con la musica di cui parli che con la musicalità della tua scrittura, il che lo rende un processo ancora più entusiasmante. Il tuo stile e le tue scelte lessicali sono musicali di per sé, forse più ancora negli articoli brevi (come quelli raccolti in Futuromania), perciò mi chiedevo quanta importanza dai alla musicalità del linguaggio, e se scrivere “musicalmente” è qualcosa che ti viene naturale oppure è frutto di uno sforzo consapevole. (Ho il sospetto che sia la prima delle due.)

Durante un nostro scambio di email mentre lavoravo su Futuromania, mi hai detto che folderol (infiorettatura, decorazione superflua) è una delle tue parole preferite. In realtà ci sono tante parole che ami usare, e ho la sensazione che ti piacciano non solo per quanto sono evocative, ma anche per il suono.

Simon: Risposta lunga, perché hai toccato un argomento che mi sta molto a cuore. Nella maggior parte dei casi gli scrittori seguono l’istinto, ma sono diventato più consapevole di ciò che faccio anche grazie alle interazioni con te e con i due traduttori tedeschi che ho avuto, che sono molto bravi e mi fanno domande interessanti. Inoltre, negli ultimi sei o sette anni ho tenuto parecchi seminari di critica musicale, il che mi ha permesso di riflettere meglio sulle mie scelte stilistiche. Buona parte dell’efficacia di un brano in prosa dipende non necessariamente dall’argomento, ma da quella che chiami musicalità del linguaggio.

Me ne sono reso conto per la prima volta rileggendo vecchi articoli della primissima giornalista musicale che abbia mai seguito e ammirato, Julie Burchill del New Musical Express, e vedendo quanto usava l’allitterazione, una tecnica che ho usato (o abusato) cronicamente in passato. È un “trucchetto semplice”, una forma elementare di magia verbale, ma è uno strumento per dare al lettore la sensazione che gli stai dicendo la verità. Ti colpisce a livello subliminale, come la musica. Gli scrittori fanno parecchie cose d’istinto, e la combinazione ritmica delle parole rende la prosa efficace e convincente. I politici lo fanno in continuazione: se ascolti i discorsi dei politici anglofoni, usano spesso frasi con tre parole o locuzioni in rapida successione, una cadenza che sembra conquistare gli ascoltatori. Quando però te ne rendi conto, l’effetto è davvero stucchevole.

Una cosa che mi piace fare è infrangere le regole dello “scrivere bene”, spesso piuttosto banali, il marchio di fabbrica dei giovani scrittori. Per esempio, in inglese c’è una tecnica chiamata elegant variation, vale a dire il tentativo di evitare le ripetizioni utilizzando i sinonimi. Il risultato però può essere altisonante e pesante, perché per evitare le parole semplici finisci per scegliere le alternative forbite e multisillabiche, per esempio commence invece di start. Proprio questa settimana, scrivendo un articolo sui Clash, ho avuto un’idea che mi piaceva, anche se se ne saranno accorti in pochi: ho definito Combat Rock “their best recorded recording” (la loro registrazione registrata meglio). Molti scrittori avrebbero fatto di tutto per evitare la ripetizione, ma se metti recorded subito prima di recording è chiaro che è voluto. A me piace, è quasi poetico. Ho scelto inconsciamente recording invece di record perché ha lo stesso numero di sillabe di recorded. Ma ho usato quelle parole anche perché hanno un che di autorevole. Potrei sbagliarmi – non sono un tecnico del suono, qualcuno potrebbe obiettare che “in realtà i microfoni erano piazzati molto meglio in London Calling” – ma recorded recording ha una sua asciuttezza che lo fa sembrare più autorevole, come se sapessi di cosa sto parlando.

A volte in quanto critico cerchi di dare alla prosa una musicalità che rispecchia la musica di cui stai scrivendo. Ecco perché mi sforzavo semi-consapevolmente di parlare della jungle in una maniera che racchiudesse da un lato sua realizzazione scientifica con i computer, dall’altro l’impatto viscerale ed esplosivo che aveva in discoteca, magari infilando qui e là qualche parola di patois giamaicano o dello slang londinese di quella scena. Ci sono una quantità enorme di critici che hanno provato a “scrivere punk”, e altri a “scrivere Funkadelic” o “hip hop”. Quando ho iniziato, tendevo a usare parole lunghe e oscure e un sacco di metafore e similitudini evocative nel tentativo di riprodurre le immagini mentali di tutti quegli artisti neo-psichedelici di fine anni ’80 come i My Bloody Valentine. Cercavo di essere allucinogeno senza avere alcuna esperienza di allucinogeni. Ma quando gli scrittori invecchiano, è normale che reagiscano contro la “prosa barocca” che utilizzavano da giovani. La tua scrittura si fa più essenziale. È più efficace se usi soprattutto frasi chiare e semplici, con qualche immagine ultra-vivida qui e là. Per i lettori diventa faticoso se ogni frase vorrebbe esplodere sulla pagina.

Oh, sì, a proposito di “parole preferite”: ne ho parecchie, e mentre scrivevo gli ultimi due libri ho addirittura fatto un elenco e l’ho appeso sopra la scrivania. L’idea non era eliminarle del tutto, ma limitarle. Per esempio, mi ero imposto di usare zones (zone) una sola volta a capitolo, perché altrimenti si crea un effetto subliminale di ripetizione. Uno dei problemi dello stile è che da un lato vuoi che i lettori dicano “oh, sì, questo è inconfondibilmente Reynolds”, ma dall’altro non vuoi scadere nell’auto-parodia o diventare del tutto prevedibile. Immagino sia lo stesso per chi scrive melodie. So riconoscere al volo una melodia di Green Gartside, ci sono certi intervalli che gli piace usare. Lo stesso vale per Costello, che scrive melodie adatte alla sua voce. Ma arriva un punto, specie se fai dischi da tanto tempo, in cui l’intreccio fra le tue melodie e la tua voce diventa troppo familiare. Quasi tutti finiscono per sembrare imitatori di se stessi. Il gioco è evitare che succeda, finché ci riesci.

Michele: È interessante il tuo accenno alla ripetizione, perché è una questione che mi tocca affrontare spesso nel mio lavoro. L’esperienza mi insegna che, per qualche ragione, gli scrittori e gli editori anglofoni tendono a non percepire le ripetizioni involontarie come un problema. Persino alcuni romanzieri, dai quali ci si aspetterebbe un’attenzione estrema alle scelte lessicali. Ne ho discusso più volte con altri traduttori, e sono tutti d’accordo. Prendiamo queste righe dall’autobiografia di Herbie Hancock, che qualche anno fa ho tradotto per minimum fax: «That night, for our first set, the six of us STARTED slow, kind of feeling each other onstage. Very quickly we STARTED to get comfortable... and just like that the music STARTED to flow. We STARTED out with “Fat Albert Rotunda”, but that wasn’t the heart of it. As we moved into “Speak Like a Child”, a mellower piece, everybody STARTED to open up, like a flower blossoming». Herbie non è uno scrittore, perciò non possiamo dare la colpa a lui, ma il libro l’ha fatto insieme a una scrittrice professionista, e di sicuro il testo è stato rivisto dalla redazione. Non ho dubbi che questa ripetizione non fosse voluta, e non capisco come abbia potuto sfuggire a tutti. Traducendo il brano, non avrei potuto rendere tutti quegli started con cinque occorrenze della stessa parola italiana, sarebbe stata una stonatura. Se l’avessi fatto, chi ha rivisto la traduzione mi avrebbe chiesto di intervenire, altrimenti molti lettori italiani l’avrebbero trovato fastidioso. Ho detto che gli scrittori anglofoni tendono a fare così, ma tu no, cosa che apprezzo molto. Quando usi la ripetizione, come in “recorded recording”, è una scelta stilistica consapevole che naturalmente io riproduco in italiano. Perciò la domanda è: in quanto scrittore prolifico e lettore vorace inglese, noti anche tu questo abuso della ripetizione nella narrativa e saggistica in inglese? Come mai i lettori inglesi sembrano trovarla meno sgradevole di noi italiani? Fra le altre ragioni, potrebbe esserci il fatto che le parole inglesi sono quasi sempre più brevi dei corrispettivi italiani: started (due sillabe) è traducibile solo con forme verbali di tre-cinque sillabe, a seconda della persona, perciò la ripetizione può risultare meno pesante in inglese che in italiano. Ma l’abuso della ripetizione in inglese rimane comunque un fenomeno di cui molti traduttori e lettori italiani si accorgono.

Simon: Quel brano di Herbie Hancock è facilmente migliorabile, ci sono sinonimi per ogni started, e uno si può eliminare: «That night, for our first set, the six of us started slow, kind of feeling each other onstage. Very quickly we grew comfortable... and just like that the music began to flow. We kicked off with “Fat Albert Rotunda”, but that wasn’t the heart of it. As we moved into “Speak Like a Child”, a mellower piece, everybody opened up, like a flower blossoming». Con ogni probabilità, l’autobiografia di Herbie Hancock nasce da interviste rilasciate alla scrittrice, che poi le ha trascritte e rielaborate in forma quasi narrativa, ma comunque colloquiale. E nelle conversazioni la ripetizione è molto più accettata: se ascolti una conversazione registrata, è piena di parole ripetute tante volte, per maggiore enfasi, e di frasi incomplete. Non sono sicuro che sia andata così per il libro di Hancock, ma molte autobiografie nascono in questo modo. Non ho mai notato una maggiore tolleranza della ripetizione nella scrittura inglese.

È buffo che il tuo esempio sia basato su started, perché nei miei seminari uso proprio il verbo start per spiegare che di solito è meglio scegliere le parole brevi: “Non c’è alcun motivo di usare una parola come commence, usate begin o meglio ancora start, che ha una sillaba sola”. In realtà, potrebbe esserci una ragione per usare commence, se vuoi creare un senso di pomposità, l’idea di qualcuno che fa qualcosa in maniera presuntuosa. La ripetizione di cui parli tu è generalmente un segno di scrittura sciatta, ma può essere utilizzata consapevolmente come tecnica. Un altro critico del New Musical Express che leggevo sempre da giovane, Paul Morley, usa la ripetizione – la stessa cosa detta più e più volte, con minime variazioni – in maniera quasi ipnotica o per costruire un crescendo di intensità e tensione. Quanti modi ci sono per dire start in italiano?

Michele: In italiano ci sono sostanzialmente due verbi corrispondenti a start: “iniziare” e “cominciare”, entrambi usati nel parlato come start e begin in inglese. “Cominciare” è etimologicamente collegato a commence, ovviamente, ma appartiene a un registro molto più basso e colloquiale. In alcuni contesti si può usare “aprire”, proprio come open in inglese. Ma abbiamo anche noi un’alternativa “pomposa” almeno quanto commence: “principiare”. Quanto all’autobiografia di Herbie, molto probabilmente è nata proprio come dici tu, ma se scegli di pubblicarla in forma narrativa, e non come una raccolta di interviste, secondo me dovresti stare un po’ più attento alle ripetizioni. Non è difficile, come hai dimostrato riscrivendo quel brano senza ripetere started per cinque volte. Inoltre, come dicevo, è una cosa che i traduttori italiani notano anche nei romanzi e nei saggi non musicali.

A parte Giorgio Moroder, ci sono altri artisti italiani che hanno influito sui tuoi gusti musicali e che hai seguito negli anni? E hai qualche “scheletro nell’armadio”, cose che ascoltavi da giovane e di cui oggi ti vergogni al punto che vorresti cancellarle dalla tua storia musicale? Io ricordo che da bambino ascoltavo in continuazione una cassetta di Julio Iglesias, che all’epoca aveva un enorme successo in Italia...

Simon: Come tanti fan inglesi della musica dance, ho ascoltato parecchia Italo-disco e Italo-house. E negli ultimi anni ho scoperto Franco Battiato, Demetrio Stratos e i Krisma. Ma devo dire che gli artisti italiani che conosco meglio sono quasi tutti estranei al circuito della musica popolare: compositori d’avanguardia come Luigi Nono, Luciano Berio e Bruno Maderna. Oppure altri che operavano nel settore della library music ma spesso realizzavano opere elettroniche, sperimentali o ambient, come Pietro Grossi, Egisto Macchi, Piero Umiliani, Amedeo Tommasi e Armando Sciascia/H. Tical. Il genere di musica che viene ristampata da etichette come la Intervallo di Milano. Ho amato in particolare un album della Intervallo chiamato Ittiologia. E poi, naturalmente, come tanti ascoltatori inglesi ammiro gli dèi delle colonne sonore: Morricone e Rota.

Una delle cose che ho scoperto viaggiando in Europa e altrove è che spesso gli artisti rock più importanti di un paese sono poco noti nel mondo anglofono, perché il cuore della loro arte sono i testi. E gli inglesi sono notoriamente poco bravi a imparare le altre lingue. Quando andavo a scuola, a un certo punto sapevo leggere il francese piuttosto bene, e ancora oggi probabilmente potrei prendere un giornale e capire quasi tutto, ma il francese colloquiale e anche quello letterario sono molto diversi. Di conseguenza, non sarei in grado di apprezzare il lavoro di un bravissimo paroliere francese. Per non parlare dell’italiano e del tedesco, due lingue di cui conosco solo qualche espressione elementare.

Me ne sono reso conto per la prima volta girando la Germania per presentare un libro. La mia traduttrice, che ci accompagnava in giro per il paese, mi faceva sentire tanti artisti che non conoscevo, e mi diceva: “Se potessi comprendere il testo, capiresti come mai questa musica è così grande”. Disdegnava in particolare i gruppi tedeschi amati in Inghilterra e in America, come Can, Kraftwerk, Neu!, Cluster e Faust, musica strumentale o al massimo con pochissime parole (spesso in inglese). I gruppi Krautrock erano solo degli hippie noiosi, e secondo lei il gruppo tedesco più importante degli anni ’70 erano i Ton Steine Scherben, che io non avevo mai sentito nominare. A me la loro musica sembrava un hard rock piuttosto ortodosso, ma a quanto pare i testi sono potenti e originali, e in Germania sono importanti anche per il loro impegno politico e la loro rappresentazione della sessualità.

Se ho degli scheletri nel mio armadio musicale di cui mi vergogno? In realtà direi di no. Certo, ci sono gruppi che da ragazzo mi piaceva ascoltare alla radio – come gli ELO, i 10cc, gli Abba – ma di cui non avrei mai comprato un disco, perché mi dedicavo alla musica “seria” come il post-punk. All’epoca avevo pochissimi soldi, perciò li investivo in cose che mi sembravano “importanti” come i PiL o i Joy Division. Oggi invece è lo stesso pop radiofonico a essere grande musica. Non credo nel concetto di guilty pleasures (piaceri inconfessabili), almeno non in termini estetici. Ci sono dischi, film o libri che possono essere moralmente imbarazzanti, al punto da farti esitare prima di ascoltarli, guardarli o leggerli, per via delle opinioni o del comportamento dell’artista: cose che hanno fatto in passato e sono venute a galla in seguito (il razzismo di Nico, i reati sessuali di Gary Glitter) oppure la loro “evoluzione” politica (Morrissey, che ha sporcato il suo meraviglioso passato musicale). A livello politico e personale non sopporto Ted Nugent, ma la sua «Stranglehold» è un pezzo chitarristico eccezionale. Ci sono brani dancehall reggae che una volta amavo, finché non ho scoperto l’omofobia dei testi in patois: quella che sembrava una splendida festa chiassosa era in realtà qualcosa di esecrabile.

Trovo puerile pretendere che gli artisti conducano uno stile di vita perfetto, e che le loro opinioni e valori, specie per gli artisti del passato, corrispondano alle idee progressiste di oggi. Ma nel caso di gente che si è comportata veramente male, può essere difficile tenere distinto questo aspetto dalla loro arte.

Michele: Puoi citare uno o due (o quanti vuoi, in realtà) “libri della tua vita” che hanno avuto un impatto indelebile su di te?

Simon: Ho scelto l’opzione “quanti vuoi”, ma avrei potuto aggiungerne molti di più. Saggistica: Frammenti di un discorso amoroso e Il piacere del testo di Roland Barthes. Quest’ultimo in particolare ha cambiato completamente la mia concezione della cultura e dell’arte. Ma poi c’è anche La nascita della tragedia di Nietzsche...

Letteratura: il mio preferito è forse I canti di Maldoror di Lautréamont, naturalmente letto nella traduzione inglese, un delirio gotico proto-surrealista. Ma poi c’è anche Fuoco pallido di Nabokov, e poi...

Fantascienza: da teenager, appena prima di scoprire il rock, ero un grande fan della fantascienza e della “storia alternativa”, un suo sottogenere. Ci sono due romanzi che adoro, e che ho riletto tante volte. Uno è I mercanti dello spazio di Frederik Pohl e C.M. Kornbluth, che immagina un futuro prossimo dominato dalle agenzie pubblicitarie (di recente ho scoperto che gli autori appartenevano ai Futurians, un gruppo di scrittori di fantascienza americani di sinistra, perciò era una satira anti-capitalista). Un altro che ho riletto qualche mese fa – forse per la sesta volta – è il geniale Anniversario fatale di Ward Moore, che immagina cosa sarebbe successo se i sudisti avessero vinto la guerra di secessione. Stranamente, sembrava applicabile a quanto sta succedendo in America nel 2020. Proprio questa settimana alcuni Stati del Sud hanno detto di voler dichiarare l’indipendenza. La guerra di secessione non è mai finita. Ma poi c’è anche J.G. Ballard, e poi...

Critica musicale: le ultime tre pagine di Awopbopaloobop Alopbamboom di Nik Cohn sono la cosa migliore mai scritta sul pop. Rock and the Pop Narcotic di Joe Carducci ha cambiato la mia concezione della musica rock. La sezione sul pop nella “biografia” di Kate Bush scritta da Fred Vermorel è straordinaria, così come la sua “biografia” di Vivienne Westwood, che in realtà è anche un libro su Malcolm McLaren, sugli anni ’60 e così via.

Michele: Ho avuto anch’io la mia rivelazione barthesiana: Miti d’oggi, che ho letto per il mio primo esame all’università. Un libro che per molti versi ha cambiato il mio modo di vedere il mondo.

Per finire, e per tornare al punto iniziale, quale/i album consiglieresti a chi nutre contro la musica elettronica lo stesso pregiudizio che nutrivo io un tempo (no a qualsiasi musica non suonata fisicamente con gli strumenti)? Di nuovo, sentiti libero di citarne “quanti vuoi”...

Simon: Ecco qui, in ordine più o meno cronologico. L’elenco comprende album e singoli brani.

Jean-Jacques Perrey – «Chicken on the Rocks»
Henri Sauguet – «Aspect Sentimental»
Delia Derbyshire – «Blue Veils and Golden Sands»
Tomita – «Mercury, the Winged Messenger» (da The Planets)
Donna Summer – «Working the Midnight Shift/Now I Need You» (lato B di Once Upon a Time)
Kraftwerk – «Neon Lights» (da Computer World)
Weather Report – «River People» e «The Elders» (da Mr. Gone)
Suicide – Suicide: Alan Vega and Martin Rev, «Dream Baby Dream»
The League Unlimited Orchestra – Love and Dancing
 Japan – «Ghosts»
Ultramarine – Every Man and Woman Is A Star
Aphex Twin – Selected Ambient Works 85-92, «Analogue Bubblebath», «Alberto Balsam»
LTJ Bukem – «Atlantis (I Need You)»
Boards of Canada – Music Has the Right to Children
Herbert – Around the House
Daft Punk – Discovery
Burial – Untrue
Migos – Culture, «Bosses Don’t Speak», «Top Down on Da Nawf»
Travis Scott – «Goosebumps»
Beatriz Ferreyra – «Echos»

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