Future Sex: intervista a Emily Witt

È in libreria Future Sex di Emily Witt: pubblichiamo un'intervista apparsa qualche mese fa su Work in Progress, il blog dell'editore Farrar, Straus and Giroux. La traduzione è di Claudia Durastanti.


La promiscuità come atto politico

Emily Witt a confronto con Anna Wiener


Quando è stato pubblicato la scorsa estate, Future Sex di Emily Witt è stato descritto come un libro da «Joan Didion in salsa fetish». Un paio di settimane dopo le presidenziali americane, Witt ha incontrato la scrittrice Anna Wiener da Green Apple Books a San Francisco, per parlare di come il risultato del voto abbia alterato la sua stessa interpretazione del libro, di quanto scriverlo le abbia cambiato la vita e di come i suoi costumi sessuali siano (o non siano) diventati un’altra cosa.

Anna Wiener: Poco fa parlavamo delle elezioni. Mi chiedo se la settimana appena trascorsa non abbia iniziato a emanare una luce sinistra su certi aspetti di Future Sex, in particolare sulle persone che stando alla tua descrizione sono cresciute facendo da testimoni alla catastrofe senza mai doversene occupare in prima persona. Quale pensi sarà l’impatto delle elezioni su questa categoria di persone?

Emily Witt: Mi sono svegliata mercoledì mattina con la sensazione di aver condotto una vita debosciata e decadente fino adesso. Io e un amico ci siamo chiesti quali siano stati i nostri contributi, seppure infinitesimali, allo stato di cose per cui si è arrivati ad avere Donald Trump come presidente. Mi venivano in mente degli incarichi per cui avevo scritto articoli sui soldi, lo stile e l’alta moda e mi sentivo a disagio. Il mio amico è un regista e si sentiva in colpa ad aver girato delle pubblicità. Da un lato c’era una sensazione del tipo: «Oh mio dio che vita debosciata ho fatto, devo iniziare a condurre una vita seria».

Dall’altro, mentre la settimana andava avanti e cercavo di elaborare cosa fosse successo, mi sono chiesta cosa fosse a rischio per la nostra libertà sessuale. La quale, se sei una donna, è legata in maniera diretta al sistema sanitario e alla possibilità di ottenere dei contraccettivi, alla storia che ci viene detta su cosa è giusto e cosa è cattivo. Durante la settimana una parte di me si è sentita ancora più vicina alla promiscuità come atto politico, come mai prima; ho capito di voler fare cose che i conservatori disapproverebbero. Dobbiamo ricordarci chi siamo e di cosa ci importa davvero. 

Anna Wiener: Voglio soffermarmi sulla contrapposizione che hai appena delineato tra una vita debosciata e il desiderio di condurre una vita seria. Cosa succede alla sessualità rispetto a questa suddivisione?

Emily Witt: Una delle cose che ho imparato scrivendo il libro è che la sessualità è una delle esperienze umane che oppone più resistenza alla commodificazioneMan mano che iniziavo a ragionare sulla mia sessualità e trascorrevo il tempo con diverse persone e guardavo un sacco di porno, mi rendevo conto che ciò che è sexy non è per forza ciò che è bello. Mi era già stato detto prima, ma l’ho scoperto in maniera nuova.

Anna Wiener: Magari puoi spiegare perché alla fine è diventato quasi un libro su San Francisco. Come è successo?

Emily Witt: È stato un po’ per caso. Quando ho iniziato a lavorare al libro nel 2011, non sapevo ancora cosa volessi scrivere. Mi ero resa conto che c’era stato uno slittamento demografico: le persone si sposavano molto tardi o non si sposavano affatto. C’era stato anche uno slittamento tecnologico grazie al quale avevamo tanti modi nuovi di incontrare delle persone ed entrare in contatto con diverse comunità sessuali. E poi c’era stato uno slittamento morale – in realtà su questo mi ero sbagliata – ma all’epoca avevo davvero la sensazione che il paese fosse pronto ad aprirsi a una gamma molto più ampia di identità, orientamenti e interessi sessuali e il linguaggio avesse una capienza maggiore per i tanti modi in cui stare al mondo.

Poi ho letto The Neighbor’s Wife di Gay Talese (La donna d’altri, Rizzoli, 2017), una storia culturale della rivoluzione sessuale uscito nel 1981. E ho pensato di poter scrivere una storia culturale simile, nello specifico sulla sessualità femminile in America dopo gli anni Novanta. Quello era il mio intento iniziale.

Sono arrivata a San Francisco un po’ per caso. Il mio contratto di affitto era scaduto e volevo andarmene da New York, e San Francisco è quel genere di posto in cui arrivi e ti imbatti in persone molto schiette che parlano proprio di tutto in maniera sincera. Poi ovviamente c’erano i suoi trascorsi di sperimentazione. Sono arrivata in città con l’intenzione di visitare i produttori porno della Kink.com e andare da OneTaste, la comunità che pratica la meditazione orgasmica, per scoprire cos’altro avrei potuto trovare.

Una volta che sono arrivata lì, nel 2012, mi sono semplicemente accorta che stava accadendo qualcosa. C’era una cultura aziendale in ascesa, combinata con un nuovo stile di vita che aveva assorbito alcuni elementi tipici della controcultura – l’interesse per le droghe psichedeliche e l’apertura sessuale – ma tutto ciò veniva articolato in maniera diversa, molto conformista. Non c’era resistenza al denaro. Era tutto nuovo per me. Così a San Francisco ho conosciuto le persone di cui poi ho scritto, e ho fatto delle esperienze personali tra le più intense della mia vita, che poi si sono fatte largo nel libro.

All’inizio, mentre scrivevo Future Sex, mi dicevo «Sono una giornalista, sono una giornalista. Vado in giro con queste persone, ma loro non sono come me». Ero convinta di avere delle aspettative davvero convenzionali su me stessa e che alla fine avrei voluto solo sposarmi. Poi ho scoperto che stavo usando il giornalismo come scusa per prendere in considerazione la mia libertà sessuale come un’opzione reale e metterla in pratica – non solo uscendo con persone conosciute su internet e andandoci a letto, ma provando cose che mi mettevano a disagio.

Anna Wiener: Come sei riuscita a tenere in equilibrio l’essere giornalista e allo stesso tempo – per usare un’espressione tipica di San Francisco – affrontare un percorso di crescita personale o di esplorazione? C’è mai stato un momento in cui hai voluto mettere una di queste due identità da parte?

Emily Witt: Certo. Non è stato semplice ottenere un equilibrio. Non volevo scrivere delle persone per esporle, incontrandole da persona comune e usandole da giornalista, quindi ho cercato di essere abbastanza esplicita. Quando sono andata dalla Kink ho detto «Sono una giornalista». Quando ho incontrato i poliamoristi – si tratta di capitoli diversi all’interno del libro – mi sono presentata come giornalista. Quando uscivo con persone trovate su internet non dicevo «Ciao, piacere di conoscerti, sono una reporter» perché ero lì anche a titolo personale, volevo frequentare qualcuno.

Anna Wiener: Se parliamo di comunità, per esempio la comunità di OneTaste o la comunità dei poliamoristi o quella di Kink.com – per quanto queste possano dirsi comunità – cosa ti ha sorpreso di più delle persone che hai conosciuto o delle strutture in cui ti sei imbattuta per la prima volta?

Emily Witt: Quando entri in un nuovo ambiente da reporter e fai delle domande, all’inizio vedi solo le cose che ti aspettavi di vedere. Nel caso del giro attorno a OneTaste è stato complicato. C’erano resoconti su internet scritti da persone che avevano avuto delle esperienze negative con l’organizzazione e secondo le quali OneTaste era un culto. Aveva legami diretti con i movimenti del potenziale umano e insisteva nel mettere le persone davvero a disagio, per poi trattare questo disagio come una forma di rivelazione. Poi c’era il loro gergo; tutte quelle cose mi facevano sentire estremamente a disagio. Per non parlare della pratica in sé. Se non hai familiarità con la cosa, si tratta di una donna e di un partner, la donna si toglie i pantaloni e per quindici minuti viene strofinata dal partner. L’idea è quella di una pratica sessuale che non è sesso, non è legata a una frequentazione ed è svincolata da qualsiasi romanticismo. Ha dei confini molto precisi: non deve essere ricambiata, non rappresenta i classici preliminari; è solo una cosa che fai per quindici minuti con qualcuno di cui sei innamorata o che non ami per niente, e poi finisce. Dovrebbe essere un modo per mettere una donna nella condizione di godere del suo corpo sessuale senza tutte le aspettative che vi sono connesse. Io l’ho provata e ho trascorso del tempo con quella comunità.

All’inizio volevo essere da tutt’altra parte. Era più facile frequentare le persone nel mondo del porno perché non cercavano il contatto visivo e non erano imbrigliate in quelle cose New Age, in tutti quei discorsi sul potenziale umano. Ogni volta che facevo delle esperienze con loro diventavo scettica e me ne andavo scettica, ed è stato solo molto tempo dopo che mi sono resa conto di cosa avessi imparato da loro e ho cercato di scriverne. La verità, quando parliamo di questi argomenti, è che la rete, le riviste e le tv sono piene di commenti sugli aspetti negativi del porno online, degli incontri su internet e di tutta la nostra libertà sessuale. È chiaro che ci sono dei rischi come il tracollo sentimentale e il senso di instabilità. Ho cercato di ricavare un nuovo spazio, di sbilanciarmi sul lato ottimista della faccenda. Sapevo quali sarebbero state le obiezioni a certe cose che scrivevo, ma volevo intravedere tutte le possibilità di felicità e di contatto tra persone. Ero alla ricerca di quello.

Anna Wiener: Com’è stato tradurre questo libro nel mondo, mentre lo scrivevi? È un libro a cui hai lavorato per quattro o cinque anni, giusto? Come sei rientrata nel tuo ambiente a New York? 

Emily Witt: Il mio mondo a New York era sessualmente aperto. Facevo parte di un giro di persone che si conoscevano tutte tra loro, quasi tutte dedite alla scrittura. Ci frequentavamo, andavamo alle feste insieme e andavamo a letto tra noi. Era una vita sociale urbana piuttosto comune, credo. In quel mondo, tutto ciò che alludeva a un nuovo linguaggio – una parola come «poliamore» per esempio – suscitava delle smorfie. C’era un sacco di disprezzo per tutto ciò che puzzava troppo di «auto-aiuto».

In Electric kool aid acid test (Mondadori, 2013), c’è una parte in cui Tom Wolfe mette a confronto Leary e Kesey. Per gli intellettuali della East Coast sta tutto nella testa mentre sulla West Coast si tratta di frizzi e lazzi. Si tratta solo di un ciclo di influenza culturale riconosciuto che si riproduce di continuo, ma in qualche modo vale anche per l’arco di tempo in cui ho scritto il libro, se pensi a Tinder – beh a dire il vero Tinder non esisteva neanche quando ho iniziato – ma se prendi Tinder c’è un gran numero di profili che contengono le parole «poliamore» o «non monogamia» o persino «pegging» (sesso anale in cui è la donna a penetrare l’uomo con un dildo). Sulla East Coast ti imbatti sempre di più in questo nuovo linguaggio che forse è stato generato proprio qui sulla West Coast.

Non sono uscita con persone conosciute in rete di recente, ma parlando con gli amici e le amiche che lo fanno, ho scoperto che alcuni di loro vanno alla ricerca di poliamoristi o di persone kinky, in parte perché è quello in cui si riconoscono, ma anche perché vogliono entrare in contatto persone sessualmente consapevoli. Persone che hanno ragionato a lungo su quello che gli piace e perché gli piace e sono in grado di articolarlo. Le comunità poliamoriste e kinky alimentano un sacco di discussioni e ampliano il vocabolario, e forse questo è meglio che andare a bere una cosa con qualcuno che pensa di essere normale e basta.

Anna Wiener: Nelle tue frequentazioni sentimentali, ti sei ritrovata a introdurre un nuovo vocabolario, hai scoperto che stavi cercando di tradurre una cultura in un’altra o hai mantenuto un confine preciso?

Emily Witt: Quando ho iniziato a scrivere il libro, pensavo a me stessa come a una persona con aspettative davvero mainstream, e penso ancora a me stessa come a una persona che non sta del tutto «là fuori». Ma lavorare al libro mi ha cambiata davvero in modi che fatico a spiegare, mi sembrano quasi forzati. Non mi ero mai soffermata sul perché mi piacesse quello che pensavo mi piacesse e non mi ero mai chiesta se quelle preferenze o se le cose che non mi piacevano avessero dei presupposti validi.

Ho sempre preso buoni voti, ero una persona buona, volevo frequentare un college prestigioso ed essere mega-realizzata; per me il metro del successo nella vita sarebbero stati il matrimonio e i figli. Era quello lo spazio a cui pensavo di appartenere, una specie di conformismo; pensavo di essere una persona che segue le regole. Poi ho cercato di valutare le mie esperienze reali, le scelte che avevo fatto e le storie che mi raccontavo, e alla fine mi sono resa conto di non essere così interessata al metro del successo.

Quando avevo vent’anni e beccavo un fidanzato che guardava un porno, mi veniva un’ansia esistenziale, però volevo anche essere dare l’impressione di essere a mio agio con tutto. Era stressante. Dopo aver trascorso molto tempo con i registi e gli attori porno, adesso quella mi sembra una parte naturale e positiva della vita. È importante avere fantasie sessuali.

Prima di iniziare questo progetto non avevo mai articolato le mie fantasie e tantomeno le avevo inserite sotto forma di parole chiave in una barra di ricerca. Se qualcuno mi chiedeva cosa volessi, ero capace di dire solo «voglio essere spontanea e divertente. Voglio che tutto vada bene senza dover spiegare nulla». Mi sono resa conto di poter studiare quell’argomento e cercare di articolarlo e che potrei avere maggiore libertà e possibilità di azione nella mia vita, ed è andata proprio così.

Anna Wiener: Negli ultimi quattro anni sono usciti molti testi sulle donne, scritti da donne, legati a scelte di vita alternativa o sull’avere figli o meno, il che va contro certe aspettative culturali poste sul genere femminile. Potrei sbagliami, ma non credo che ci sia molta scrittura sul sesso e la sessualità incentrata sulla donna che non sia o accademica o che non adotti il gergo tipico delle donne che frequentano i ritiri spirituali, tipo «Andiamo all’Esalen Institute, sediamoci in circolo ed esprimiamo noi stesse per quarantotto ore». Sono curiosa di capire dove collochi questo libro, e sei hai avuto dei punti di riferimenti durante la scrittura.

Emily Witt: Era proprio quello il divario che volevo colmare. C’era stato uno slittamento demografico, ce n’eravamo resi conto tutti. Spesso il non essere sposati sui trent’anni veniva interpretato come un fallimento personale. Ma forse le cose erano cambiate, il mondo era cambiato. Tutto quello che leggevo parlava solo di relazioni e non riconosceva mai il fatto che c’erano delle decisioni che venivano prese sulle persone con cui si faceva sesso. Per me era importante focalizzarsi sul sesso perché sembrava che là fuori non venisse discusso, non nel modo in cui volevo io almeno. Gran parte della sessualità sulle riviste femminili viene presentata sotto forma di auto-aiuto o di istruzioni pedagogiche tipo «Come fare sesso anale». La pedagogia e l’auto-aiuto sono una specie di alibi o degli eufemismi attraverso i quali evitiamo di parlare di desiderio. Per me era importante mantenere un focus cristallino sul sesso e non sulle relazioni.

Anna Wiener: Molti cambiamenti progressisti sul modo in cui parliamo di sessualità e tanta apertura provengono dalla cultura queer. In che modo la tua posizione da donna eterosessuale cisgender ha condizionato il tuo approccio al libro? In che modo hai cercato di tenere in considerazione la tua identità?

Emily Witt: Durante la scrittura del libro ero davvero consapevole di essere una donna bianca eterosessuale cisgender. Spero di aver citato le persone da cui ho appreso qualcosa nel libro. In realtà sono stata molto chiara sul modo in cui le letture queer della sessualità che vanno oltre la monogamia e il matrimonio mi abbiano aiutata. Allo stesso tempo ero estremamente consapevole di quanto le donne come me, del mio stesso gruppo demografico, pensassero di non dover affrontare un processo di ricerca. La teorica gender Susan Striker, transgender, ha fatto un discorso in cui ha detto: «Vi invito tutti a fare la stessa ricerca che sono stata costretta a fare io», su chi fosse, sul perché le piacessero le persone che le piacevano, sul perché esprimesse il suo gender in un modo specifico. Prima di tutto questo, pensavo di non dovermi fare quelle domande. Mi presentavo al mondo come una persona che si sentiva a suo agio. Ora penso che un certo tipo di domande facciano bene a tutti.

Forse dirò una cosa poco corretta, ma quando vedo come hanno votato le donne bianche durante le ultime elezioni, mi dico che sarebbe stato auspicabile che avessero riflettuto di più sul perché hanno votato come hanno votato. Credo che quando si mette in discussione il proprio gender, la sessualità, si cerca di capire perché piace quello che piace, anche solo su un piano puramente intellettuale, si ottiene l’accesso a un sé più autentico. 

Anna Wiener: Durante l’Election Day io e un’amica stavamo facendo campagna per Hillary Clinton a Reno. Andavamo porta a porta, e lei indossava una maglietta con la faccia di una gatta incazzata che diceva «This pussy grabs back». C’è stato un momento in cui mi sono chiesta «È questa espressione politica sopra le righe, questo senso di agio con la parola «pussy»– è questo ciò che le donne voteranno contro?». Mi chiedo se tu riesca a intravedere un modo affinché l’apertura e il processo di ricerca di cui parli siano accessibili a persone che si ritraggono davanti a un meme un po’ sopra le righe.

Emily Witt: Spero che il mio disagio evidente nel libro renda più accessibile queste cose a persone che non ci si avvicinerebbero senza fatica. Tutto ciò di cui ho scritto, che sia il porno su internet o gli incontri online, quando è finito tra le mani di un addetto al marketing è stato codificato in maniera amichevole per le donne, usando l’espressione «un posto pulito illuminato bene» che, come sanno gli abitanti di San Francisco, era il motto del negozio di sex toy Good Vibrations quando ha aperto. Quei negozianti hanno tolto i vibratori dalle scatole pornografiche in cui venivano confezionati e hanno optato per i sex toy a forma di delfino per aggirare l’eteronormatività. Tutte cose che sono state davvero importanti, un tempo. Ma in questa fase storica hanno iniziato a darmi fastidio: perché all’improvviso se si tratta di un porno femminista i divani devono essere bianchi e l’uomo deve avere un certo aspetto? È perché così è più amichevole, è più paritario o perché le donne sono state condizionate a fare esperienza del sesso con il panico e l’ansia?

Mentre affrontavo il processo di scrittura del libro, era più facile per me pensare che l’erotismo femminista fosse una cosa pulita. Sai, non troppi genitali, oggetti con un bel design. Poi mi sono resa conto che quelle cose non erano sessualmente stimolanti, non lo erano per niente. Mi sono forzata a guardare un porno pensando a come mi descrivevo sui siti per gli incontri online, quando uscivo con persone fantastiche, iper-realizzate, e mi chiedevo «Perché non mi piace questa persona?». No, non voglio fare sesso con questa persona. È stato un processo semplice, volevo focalizzarmi sul sesso, mettere da parte l’estetica e la storia. Concentrarmi sul sesso e basta è stato davvero bello per me.

Credo che il motivo per cui «Pussy grabs back» faccia paura alle persone è perché queste vogliono pensare che la sessualità non abbia che fare con il sesso. È confortante credere che si tratta del matrimonio e di una bella casa e di una famiglia all’interno dei canoni della morale. E adesso c’è semplicemente qualcosa in me che vuole distruggere tutto ciò.

Anna Wiener: È buffa l’estetica che descrivi. Non sono mai stata da OneTaste, ma leggendo le tue descrizioni, mi è sembrata una cosa molto clinica. Nella mia testa, è tutto bianco lì.

Emily Witt: Beh, tolto il fatto che stanno strofinando delle fiche in pubblico. Una volta che sei lì, tutte le cose che ti mettono più a disagio vengono fuori. La cosa migliore che offrono, o almeno quella che ho imparato da loro, è stata capire che un sacco di volte affronto la sessualità con il panico e l’ansia. Prima non davo un nome alle mie sensazioni, scappavo e basta. Quelli di OneTaste mi hanno insegnato qualcosa.

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