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Casa d'altri: Danilo Soscia racconta Daniele Del Giudice e Arthur Rimbaud

Casa d'altri è la rubrica in cui librai e scrittori raccontano un libro.
Prende il nome da una straordinaria raccolta di racconti di Silvio D'Arzo, e ci sembrava il più adatto visto che ci piace parlare di libri, non solo dei nostri.

A gennaio 2020 Danilo Soscia tornerà in libreria con una nuova raccolta di racconti intitolata Gli dei notturni. Vite sognate del ventesimo secolo. Oggi ci fa scoprire Daniele Del Giudice e Arthur Rimbaud. Buona lettura!


di Danilo Soscia

Del Giudice e Rimbaud: il catalogo avulso del museo di Reims e una breve postilla sul buio

 

J’inventai la couleur des voyelles ! — A noir, E blanc, I rouge, O bleu, U vert. — Je réglai la forme et le mouvement de chaque consonne, et, avec des rythmes instinctifs, je me flattai d’inventer un verbe poétique accessible, un jour ou l’autre, à tous les sens.

(Arthur Rimbaud, Une saison en enfer)

 

Ho paura di diventare cieco. Una fobia che spesso mi induce a una tortuosa emulazione della cecità. Serro le palpebre e mi metto in cerca. Un fosfene verde smeraldo, l’eco di un sorriso tra i denti serrati. La necessità della luce coincide in quei momenti con lo spasmo di un individuo colto nell'atto di annegare, fino a quando una forza inattesa, un panico remoto si alleano per ricondurmi in superficie. Nel tempo breve di un'immersione, tuttavia, un vincolo familiare si palesa. Un conato, forse, uno stato di grazia. Il buio è la tabula rasa fertile da cui volti e scenari di una storia nuova prendono vita, e parlano, agiscono insieme, oppure gli uni contro gli altri. Diventare ciechi, annegare, raccontare. Nella leggenda di Omero la cecità è forse più di un attributo. È un segno, l'allegoria di una condizione necessaria e sufficiente.

Per questa ragione colleziono storie di cecità, che sono la cura, gli ex-voto del mio piccolo santuario di paranoia. Tra questi, in una teca appartata, accanto a Saramago e Bufalino, campeggia Nel museo di Reims, di Daniele Del Giudice. Storia di Barnaba, giovane afflitto da una repentina scomparsa della vista e per questo ossessionato dai musei come forma archetipica del mondo, e di Anne, sua guida nel ventre della penombra. Una coppia antica, classica a suo modo, il viandante dell’anima e la sua Beatrice. Ma se chiudo gli occhi una terza presenza si dimena nel buio. È il fantasma di Arthur Rimbaud. La sua ombra pellegrina si allunga contro i fibrosi simulacri chiusi nelle stanze del museo.

«A nera, E bianca, I rossa, O blu, U verde» è la formula del lemure Veggente venuto a recidere il nodo che lega ciascuna cosa al suo nome, e così ciascuna opera d’arte al suo titolo, alla sua didascalia. Il grumo vivo della parabola intessuta da Del Giudice parrebbe insistere in buona parte intorno a questa fertile scissione. Ai sensi imperfetti di un uomo quasi privo della vista, le parole che individuano un dipinto, una scultura, esprimono in crescendo una perturbante autonomia, un dire e non dire, o – più semplicemente – un dire altro, in segreto. Quelle indicazioni essenziali – fin dentro le loro componenti atomiche, le vocali, le pause – grazie alla penombra, al buio, si affrancano dalla transitorietà dei manufatti che accompagnano e diventano personaggi, paesaggi, azioni sciolte da quell’alveo di derivazione che è la loro cornice, la loro teca, trasformandosi nella miscela multiforme e policroma del possibile. In poche parole: molecole cangianti di una storia nuova.

Nell’esposizione allestita da Del Giudice nel suo museo di Reims coesistono produzioni realmente custodite presso quella sede con altre, invece, appartenenti solo all’immaginazione, come l’apocrifo attribuito a Nicolas-Antoine Taunay, L’enfant distrait, che gode addirittura di una sua particolare centralità. Si potrebbe quasi stilare un catalogo minimo delle opere-tappe in cui si imbatte il protagonista della vicenda: La vasque de la Villa Médicis, L’étang à l’arbre penché, Souvenirs des rives méditerranéennes, La liseuse sur la rive boisée, e più avanti il Pêcheur en barque à la rive, e ancora Desdémone aux pieds de son père. In ultimo (ma non ultimo) il dipinto-feticcio che muove l’inchiesta del protagonista, il Marat assassinato di Jacques-Louis David, è una copia dell’originale conservato presso il Museo Reale delle Belle Arti di Bruxelles, ovvero il frutto di una partenogenesi infedele. Sono solo titoli, porzioni quasi epigrammatiche, eppure rappresentano uno spazio genetico per colui che non è più in grado di accedere a una conoscenza materiale delle immagini. Essi sono la cifra arcana di un baratro domestico, il cui buio è abitato da segni le lettere di un alfabeto in grado di cristallizzare un significato e la sua proiezione ennesima:

 “Quando lui si ferma, lei si limita a leggergli il titolo del quadro e l’autore, per risparmiargli tutto quel piegarsi e avvicinarsi alle targhette, e poi resta in silenzio. Lei dice piano: «Les filles de Pélias demandant à Médeée le rajeunissement de leur père, di Charlea-Edouard Chaise» oppure «Nature morte à la statuette Maori, di Gauguin, o anvora «Un cardinal examinant un plan, di Richard Bonington» o «Bâteau sur le fleuve, clair de lune, di Stanislas Lépine» o «Le spectre de Banquo, di Théodore Chassériau» o anche «La lecture du rôle, di Renoir».”

La cecità del protagonista è uno stato che può essere esperito dal lettore con una certa immediatezza – se costui ha la ‘fortuna’ di non conoscere/riconoscere i dipinti citati da colui che narra – poiché a sua volta è naturalmente portato a fare la medesima scelta di Barnaba nel museo di Reims: immaginare, ricombinare, riscrivere, e al tempo stesso a vivere nella medesima costrizione, a navigare senza vista trai i marosi che spezzano il fasciame della nave in bottiglia, nella strettoia della domanda: cosa resta della verità di una cosa (della storia, dell'uomo stesso e del suo passaggio in questo mondo) quando vi è solo la parola a testimoniarla? Cosa appare in noi di un dipinto (di un’immagine) quando di esso conosciamo solo il titolo che il pittore – o addirittura qualcuno diverso da questi – gli ha assegnato? Una porzione oscura di tempo abitata dall’idea dei colori. La possibilità di una vita. Due corpi, due sfere sensibili, la parola e la materia si scindono, e il vuoto che si dilata tra queste è la premessa perché la storia cominci di nuovo. Così esemplificata, la rottura, la crisi (nel senso etimologico di 'separazione') sono il presupposto stesso del narrare.

La codificazione delle vocali di Rimbaud non è una pratica rigida (una corrispondenza obbligata e conclusa da una religiosità di cui lo scrittore è il solo sacerdote), bensì l'espressione di un metodo rabdomantico, «ritmi istintivi» come li definiva il poeta. Anche se il buio dovesse avvolgere ogni cosa, l'arbitrio dei sensi superstiti, il loro consorzio operoso, ne rifonderebbe l'essenza, come i colori assoluti che abitano l'oscurità, o la gravità che scatena il pensiero di una cosa. Le corrispondenze tra senso e senso sono dunque il vero tempio della natura umana, e il logos è il filo che le tiene cucite insieme.

La cecità di un uomo che non può più associare parola a oggetto, se non in virtù di un’arbitraria invenzione, coincide con la condizione stessa di colui che scrive: lo stesso lutto inconsolabile per la perdita del referente, la stessa stupefatta incapacità di intendere il linguaggio del reale e dei suoi simulacri. Eppure l’infedeltà e la non-appartenenza alla realtà sono il presupposto perché l’occhio (organo sinestetico in cui si fondono i cinque sensi, ricettacolo tattile che è contenitore e contenuto insieme) possa dare significato a questa relazione mancata. Una lezione di contro-realismo di rara intensità (scriverei ‘rara’ in generale nella nostra tradizione letteraria), interamente coagulata nello spettro della forma breve, compresa nel motivo impossibile dell’assenza di luce, ma non di spirito e di fiducia verso il potere vivificante della narrazione. Perché, è vero, forse non sapremo mai rispondere alla domanda: cosa resta del mondo fuori da esso? Ma qualcosa, al fondo di tutto, sedimenta: le parole in attesa delle cose.


(Foto: Eugenio Mazzone via Unsplash)

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