Donald Barthelme

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Non più di un anno dopo che Donald Barthelme senior ha preso la laurea in architettura nasce il suo primo figlio, e con la moglie Helen decide di dargi il suo nome (ne arriveranno altri quattro: una femmina, Joan, e tre maschi che con diversi gradi di successo intraprenderanno tutti la strada letteraria: Frederick, Steven e Peter). È il 7 aprile del 1931, e l’azione si svolge a Filadelfia. Inizia dunque la vita di Donald Barthelme, insieme con la carriera di architetto e di docente universitario del padre. Dopo soli due anni la scena (con la famiglia) si è già spostata nel Texas, a Houston, dove il padre, innamorato dello stile del suo architetto preferito, Ludwig Mies van der Rohe, progetta e si fa costruire una casa del tutto simile alla famosa Tugendhat di Mies.

 

Anche se le visite in casa sono perlopiù di persone che passano intere serate a parlare di Aalto, Mies e Le Corbusier, non si respira solo architettura in casa Barthelme: il piccolo Donald va spessissimo al cinema, e la mitologia scandinava al pari dei classici per l’infanzia sono il suo pane quotidiano; mentre esercita la penna in qualità di critico letterario per il giornalino di scuola alle medie, l’Eagle della St. Thomas High School (e con buoni risultati: vince un premio letterario dell’istituto per il miglior racconto e per la miglior poesia...), dalla fornita biblioteca di casa prende in prestito soprattutto Dos Passos; a quattordici anni, per il suo compleanno, il padre gli regala un saggio di Marcel Raymond, Da Baudelaire al Surrealismo; ma ben presto – all’incirca all’epoca in cui, dopo una breve esperienza, osteggiata dal padre, come batterista in un gruppo di amici, diventa direttore del Cougar, il quotidiano dell’università di Houston dove nel frattempo si è iscritto alla facoltà di giornalismo – Donald è in grado di acquistare i propri libri da solo, e le scelte ricadono principalmente su Joyce e Eliot (ma anche il Godot di Beckett, dichiaratamente un modello). Ma l’università non è il suo forte, e Donald abbandona gli studi per lavorare, fra il 1951 e il ’56, per lo Houston Post, con una pausa nel ’53 per la chiamata alle armi: Louisiana, Giappone e infine Corea, dove arriva esattamente il giorno in cui viene firmato l’armistizio (e può così dedicarsi alla sua attività più naturale, diventando il direttore della rivista delle forze armate). Il ritorno all’università lo vede ancora nel ruolo di scrittore-giornalista: prende la direzione dell’esistente testata universitaria e ne fonda una ulteriore, il tutto mentre scrive i discorsi per il Preside. Dal 1959 è membro del consiglio direttivo del Museo di Arte Contemporanea di Houston, di cui diventa poi direttore nel 1961-62. 


Qui prendiamo una pausa perché finisce quel che si può apprendistato di Donald Barthelme. Dalla prossima frase in poi, il nostro vive a New York, in un bell’appartamento nel Greenwich Village, e le cose per lui e per la sua carriera di scrittore prendono decisamente una piega diversa.


Dopo aver diretto per poco più di un anno la rivista Location, il 2 marzo 1963 compare il suo primo racconto sul New Yorker, “L’Lapse”: la dissacrante, spassosa parodia di una sceneggiatura felliniana con tanto di “Marcello” e “Anna”, due attori-personaggi che si esercitano sull’arte dello scrivere vacue critiche cinematografiche nel gergo degli addetti ai lavori. È nata una stella, e ha indubbiamente preso la strada postmoderna, trovando un posto nella “famiglia”. E anche un posto nelle pagine del New Yorker, dove per un quarto di secolo le pubblicazioni dei suoi racconti (ma anche di recensioni cinematografiche e di bozzetti sulla vita sociale e culturale newyorkese – spesso non firmati, più spesso sotto pseudonimo: William White o Lily McNeil) si susseguiranno ininterrotte. Da questa data e fino al 1989, quando il 23 luglio morirà per un tumore, la sua carriera non conosce pause, o cedimenti, o flessioni, anche se ogni pagina che scrive sarà sempre difficile da inquadrare in una definizione univoca, già a partire dal primo libro di racconti, Ritorna, dottor Caligari  (1964). 


Il libro successivo, e primo romanzo, Biancaneve, è del 1967; ma è nella narrativa breve che Barthelme dà il meglio di sé, e così con l’eccezione di Il padre morto, del 1979, produce una serie di raccolte di racconti, a partire da Atti innaturali, pratiche innominabili del 1968. Le altre raccolte, tutte uscite fra il 1970 e l’83, sono La vita in città, Sadness, Dilettanti, Great Days, Overnight to Many Distant Cities. Nella categoria dell’indefinibile rientra a buon diritto Guilty Pleasures, del 1974 (cercano di facilitarne la definizione un sottotitolo, “Parodie e satire”, e il risvolto che recita “il primo libro di non-fiction dell’autore”, ma poi le barriere fra i generi cadono tutte nell’avventurarsi fra le sue pagine molto illustrate).

 

Nel frattempo Barthelme si è anche concesso un libro per bambini, The Slightly Irregular Fire Engine or the Hithering Thithering Djinn, scritto per (e con la costante consulenza di) sua figlia Anne, nata nel 1965, e grazie al quale vince l’ambito National Book Award. (Alla cerimonia di premiazione – una delle rare volte in cui Barthelme, notoriamente riservato, appare in pubblico – il suo discorso di accettazione risulta così arguto e incisivo da far ritenere a gran parte dei presenti che esso stesso meriti un ulteriore premio.)

Nel 1986 ritorna al romanzo con Paradise, prima di dedicarsi a un altro libro “indefinibile”, Sam’s Bar, una sorta di graphic novel ante litteram che si svolge tutto attorno al bancone di un bar. Ma già nel 1981 la grandezza della sua short fiction viene suggellata da una raccolta antologica, Sixty Stories che, insieme con il volume complementare, Forty Stories, del 1987, consacra Barthelme come uno dei più autorevoli scrittori di racconti del secondo Novecento.


Un’altra raccolta antologica, The Teachings of Don B., che unisce in un unico volume tutte le “Satire, parodie, fiabe, storie illustrate e commedie” di Barthelme (si tratta in gran parte di materiale già pubblicato, ma con alcune chicche da amatore), esce postuma, così come il romanzo The King, una rivisitazione della leggenda di Re Artù ambientata durante la seconda guerra mondiale, e la raccolta di saggi e interviste Not-Knowing.


Oltre a due radiodrammi scritti rielaborando racconti o frammenti di altro materiale già pubblicato (The Friends of the Family e The Conservatory), esistono anche un adattamento teatrale di Great Days (per una produzione off-Broadway del 1983) e uno di Biancaneve, scritto dallo stesso Barthelme, che l’autore – dopo averci lavorato almeno tre anni, e dopo aver assistito a una prova generale all’American Place Theater di New York il 10 giugno 1974 – considerò “scritto male” e non adatto alla rappresentazione (che pertanto fu annullata alla vigilia), scusandosene con una lettera al regista, Wynn Handman. Ancor oggi non è chiaro come mai Barthelme credesse che quel suo adattamento non fosse ben fatto. Ma del resto come non essere sempre, indiscutibilmente d’accordo con la persona che ha detto: “lo scopo della letteratura è la creazione di uno strano oggetto coperto di pelo che vi spezza il cuore”?


Donald Barthelme: bibliografia

Il padre morto, Einaudi, Torino 1979.