Speciale Americana/8: Hanya Yanagihara

È in libreria e in eBook Americana. Libri, autori e storie dell'America contemporanea di Luca Briasco: il lavoro e la poetica di 40 scrittori raccontati da un grande americanista. Pubblichiamo qui, una volta a settimana, dieci contenuti extra.

Hanya Yanagihara, Una vita come tante 

di Luca Briasco
 

“Dove sono?” chiede disperato Jude St Francis, il protagonista di Una vita come tante, secondo romanzo di Hanya Yanagihara, subito dopo essersi risvegliato da un incubo.

Poi, così vicina al suo orecchio che sembra provenire da dentro di sé, sente la voce di Willem, che ripete la sua dolce cantilena: “Sei Jude St Francis. Sei il mio amico più caro, l’amico di una vita intera. […] Sei un newyorchese. Abiti a SoHo. Offri assistenza legale volontaria ad artisti, e sei nel consiglio di amministrazione di una mensa per poveri.
Sei un ottimo nuotatore. Sai cucinare. Adori leggere. Hai una voce bellissima, anche se non canti più. Sei un pianista eccellente. Collezioni opere d’arte. Mi scrivi messaggi bellissimi, quando sono fuori per lavoro. Sei paziente. Sei generoso. Sei il miglior ascoltatore che io conosca. Sei la persona più intelligente che io conosca, e la più coraggiosa, da tutti i punti di vista.
Sei un avvocato. Dirigi l’ufficio contenzioso allo studio legale Rosen, Pritchard e Klein. Ami il tuo lavoro, e non ti risparmi di certo.
Adori la matematica e la logica, e hai cercato di insegnarmele tante volte.
Sei stato trattato in modo orribile. Ma ne sei uscito, e sei sempre rimasto te stesso”.

La cantilena di Willem prosegue, all’infinito, finché le sue parole non riconducono Jude “dentro se stesso”. Ma a volte, la notte, “Jude è troppo terrorizzato e sperduto” per poter fare affidamento sui ricordi che il suo amico di una vita ha pazientemente tentato di evocare. “La sensazione di panico che prova è troppo reale e travolgente”.

“E tu, chi sei?” chiede a quell’uomo che lo tiene stretto descrivendogli una persona che Jude non è in grado di riconoscere, una persona che sembra abbia tutto e sia invidiata e amata dal mondo intero. “Chi sei, tu?”
Ma l’uomo ha una risposta pronta anche per questa domanda. “Sono Willem Ragnarsson” dice. “E non ti lascerò andare, mai”.

In questo passo, che ho volutamente citato per intero, c’è tutto quel che è necessario per comprendere la strana, perturbante grandezza di un romanzo-mondo, ottocentesco nella concezione e nel respiro ma profondamente contemporaneo tanto nei temi trattati quanto nelle tecniche narrative messe in campo. Prima fra tutte, la costante e studiata oscillazione del punto di vista, ora esterno ed equanime, ora perfettamente allineato allo sguardo dei personaggi che, a vario titolo, ruotano intorno al protagonista: Willem in primo luogo, attore di teatro e poi star del cinema, ma anche JB, artista figurativo che trascorre l’intera esistenza a ritrarre i propri amici; Malcolm, che fin da ragazzino costruiva modellini di case ed è diventato un architetto di fama internazionale; Harold, professore universitario, che ha inculcato in Jude, orfano dalle origini oscure, la passione per il diritto, e si è affezionato così profondamente al suo antico allievo da decidere di adottarlo. 

Nella cantilena di Willem c’è, per intero, il paradosso dal quale muove il racconto, che nasce come storia di formazione al maschile e ritratto di gruppo – e proprio a Il gruppo, capolavoro di Mary McCarthy, ha guardato parte della critica, in cerca di modelli o precedenti – ma poi si focalizza progressivamente su Jude St. Francis e sul mistero che circonda gli anni della sua infanzia e della sua adolescenza: un mistero che ha lasciato, sul corpo e nell’anima, un retaggio di dolore e di male dal quale sottrarsi è utopia, e che rende impossibile a Jude riconoscersi nell’uomo di successo e di talento che attrae su di sé l’affetto, la stima, l’amore di tante persone, tutte, ai suoi occhi, infinitamente migliori di lui. 

C’è poi, nel brano che ho scelto di citare, la cifra più profonda del romanzo: la totale assenza di imbarazzo con cui la narrazione vira verso il mélo, mettendo allo scoperto i sentimenti, le macerazioni, le sofferenze indicibili dei personaggi. 

Una vita come tante persegue una sorta di programmatico “eccesso emotivo”, che funge da perfetto correlativo al gigantismo del racconto e di quelle 1.091 pagine in cui Hanya Yanagihara ha “spalmato” quasi sessant’anni di vita. Nulla ci viene risparmiato: scene madri, lacrime, violenze e abusi. Tutto è in scena, e anche quel che per centinaia di pagine rimane nascosto è destinato a venire alla luce, senza mai eufemismi o mezze misure. 

Si piange, senza ritegno e a più riprese, mentre le esistenze dei personaggi ci scorrono davanti, tra successi inimmaginabili, miserie e fallimenti. Si piange leggendo e, posso garantirlo per esperienza diretta, si piange traducendo; si oscilla costantemente tra la commozione e la disperazione, di fronte alla furia ostinata con la quale Willem e Harold – ma anche Andy, il medico personale di Jude, altro personaggio straordinario – cercano di strappare il protagonista a un dolore e a un senso di inadeguatezza che non sono recuperabili, a un danno per il quale non esiste rimedio. Ed è proprio l’ineluttabilità del danno, la presenza di fratture dell’anima che persistono per quanto generosamente ci si sforzi di sanarle, a costituire il cuore del romanzo, il suo motore segreto.

Man mano che Jude prende il centro della scena, la sofferenza della quale è portatore reclama il suo dominio anche sulle vite di chi lo circonda, e il racconto, da arioso e collettivo, si fa claustrofobico e individuale, perché non esiste personaggio che possa sottrarsi al buco nero di un passato che assorbe tutto e che tutto sussume sotto una stessa condanna. 

Una scena a caso, tra le tante che si potrebbero citare per dar conto di questa discesa all’inferno, tanto inevitabile quanto contrastata con la forza degli affetti. Harold – l’unico tra i protagonisti a parlare in prima persona, subentrando alla voce narrante in tre, memorabili capitoli – ha appena scoperto, alla vigilia dell’adozione, che Jude si pratica sistematicamente dei tagli sulle braccia con lamette da rasoio, e sta cercando in ogni modo di comprendere le ragioni profonde del suo autolesionismo. Ma Jude lo interrompe, con fermezza e fissandolo negli occhi, per dirgli: “Ascolta, lo capirei, se non volessi più adottarmi”.

Ero così sbalordito che mi sono sentito pervadere dalla rabbia – quel pensiero non mi aveva mai sfiorato. Stavo per ribattere qualcosa, ma poi l’ho guardato e mi sono reso conto di quanti sforzi stesse facendo per trovare il coraggio, e di quanto fosse terrorizzato. Era realmente convinto che avessi valutato una simile ipotesi. Avrebbe davvero capito, se avessi deciso di farlo. Se lo aspettava. Tempo dopo ho realizzato che negli anni successivi all’adozione si era chiesto incessantemente quanto sarebbe durata, quale errore avrebbe commesso, prima o poi, per convincermi a disconoscerlo.

Pubblicato negli Stati Uniti nel 2015, finalista di alcuni tra i più importanti premi letterari, dal Man Booker Prize al National Book AwardUna vita come tante si è trasformato rapidamente in un vero e proprio libro di culto, con numeri da best seller non solo in America e in Inghilterra, ma anche in Europa (dalla Polonia all’Olanda). 

In Italia è stato proposto – con grande coraggio – da Sellerio, e sembra avviato a replicare il successo che già gli era arriso a livello internazionale. Adottato dalla comunità gay – per ragioni a mio avviso solo in parte condivisibili: l’omosessualità, pur ben presente nell’universo maschile del romanzo, non ne rappresenta infatti né il motore, né uno dei pilastri portanti -, recensito con entusiasmo e acume da una critica pronta a coglierne le novità e la finezza d’impianto (un esempio su tutti: l’ambientazione in una New York contemporanea descritta con una dovizia di dettagli geografici e con una capacità di visualizzazione impressionanti, e insieme avvolta in una sorta di bolla temporale, nella quale svanisce qualunque accenno ai grandi eventi e ai drammi che hanno scandito la storia della metropoli, dall’11 settembre alla crisi economica), il libro di Yanagihara ha avuto anche la sua immancabile “stroncatura d’autore”. 

A firmarla, sulla New York Review of Books, è stato Daniel Mendelsohn, il quale, pur riconoscendo a Una vita come tante diversi pregi, ne ha criticato gli eccessi di lunghezza ma soprattutto la scelta di abbandonare l’affresco corale della prima parte – incentrata sul tema dell’amicizia e sul passaggio dei quattro personaggi principali dall’adolescenza alla vita adulta, e costruita sul modello del Bildungsroman – per concentrarsi sul mistero di Jude, attuando una sorta di progressivo striptease che precipita il lettore in un abisso di violenza e masochismo. 

Le osservazioni di Mendelsohn non sono prive di fondamento, specie quando individuano uno squilibrio non facilmente conciliabile tra l’ariosità della prima parte del romanzo e il delirio claustrofobico nel quale il lettore viene trascinato in modo progressivo quanto implacabile. Ed è ragionevole supporre che un editor attento e rigoroso avrebbe potuto e dovuto intervenire su certi eccessi “cumulativi” negli abusi subiti da Jude, o sulla ripetitività dei meccanismi psicologici che lo inducono a non accettarsi e non riconoscersi nello sguardo degli altri. 

Viene però spontaneo chiedersi se il fascino del romanzo, la sua capacità di toccare nervi scoperti e di lasciare segni profondi al termine della lettura, non stiano proprio nel suo eccesso: Yanagihara non si ferma davanti a nulla e tratteggia una vera e propria discesa agli inferi, nella quale il rischio del voyeurismo e del compiacimento nella messa in scena del dolore è perennemente riscattato con le armi dell’empatia e di una profonda eticità dello sguardo. Romanzo imperfetto, forse, Una vita come tante: ma sorretto da un coraggio, una padronanza e un’ambizione di cui è forse impossibile trovare un equivalente nella letteratura americana contemporanea.

In evidenza