Speciale Americana/2: Toni Morrison

È in libreria e in eBook Americana. Libri, autori e storie dell'America contemporanea di Luca Briasco: il lavoro e la poetica di 40 scrittori raccontati da un grande americanista. Pubblichiamo qui, una volta a settimana, dieci contenuti extra

Toni Morrison, Amatissima 

di Luca Briasco

 

Nella prefazione ad Amatissima, il suo quarto romanzo e probabilmente il suo capolavoro, pubblicato nel 1987 e premiato l’anno successivo con il Pulitzer (in Italia, uscito per Frassinelli nella traduzione di Giuseppe Natale), Toni Morrison racconta il processo di genesi del libro, preceduto dalla decisione di allontanarsi dal lavoro di editor (svolto per la prestigiosa Random House, con la pubblicazione di voci fondamentali della letteratura afroamericana: scrittrici come Toni Cade Bambara e Gayl Jones e grandi personalità come Angela Davis e Muhammad Ali) per dedicarsi interamente alla narrativa, e culminato nella riscoperta della storia di Margaret Garner, “una giovane madre che, dopo essere sfuggita alla schiavitù, fu arrestata per aver ucciso la figlia (e aver cercato di uccidere anche gli altri figli) pur di non farla tornare nella piantagione”.

La decisione di incentrare il nuovo romanzo sulle vicende di una madre che ha conquistato la libertà al prezzo più alto ha un costo, perché comporta l’immersione in un paesaggio storico e umano che ha in sé qualcosa di spaventoso. Morrison lo chiarisce senza mezzi termini:


“L’eroina avrebbe dato corpo a una non contrita accettazione della vergogna e del terrore, accolto le conseguenze dell’aver scelto l’infanticidio, rivendicato la propria libertà. Il terreno – la schiavitù – era arduo e inesplorato, invitare i lettori (e me stessa) a entrare in quel paesaggio repellente (nascosto, ma non del tutto; deliberatamente sepolto, ma non dimenticato) voleva dire piantare una tenda in un cimitero abitato da fantasmi capaci di far risuonare la propria voce”.

In questa dichiarazione programmatica è presente tutto ciò che avrebbe potuto fare di Amatissima un romanzo infarcito di una – seppur limpida e giustificata – retorica antischiavista, ma anche gli elementi che ne fanno invece qualcosa di completamente diverso, e che conferiscono al racconto una potenza evocativa difficilmente eguagliabile. Verrebbe quasi da dire che ci sono, nelle parole di Morrison, le nobili ragioni che hanno probabilmente indotto l’Accademia di Svezia a conferirle il Premio Nobel per la letteratura, nel 1993, ma anche quelle, ben più profonde e durature, che ne fanno una figura centrale nella definizione del canone contemporaneo. Le parole chiave, nella citazione che ho riportato, sono “arduo”, “inesplorato”, “repellente”, “nascosto”, “sepolto ma non dimenticato”. E ancora “fantasmi”, e “voce”. E sono parole apparentemente in controtendenza rispetto a una tradizione letteraria “di denuncia” che ha avuto le proprie voci importanti e celebrate: bianche prima di tutto, certo, in una linea che da Harriet Beecher Stowe arriva direttamente a William Styron, ma anche nere, a partire dalle narrative autobiografiche di Harriet Jacobs o Frederick Douglass

Morrison sembra però volerci suggerire dell’altro: a fare della schiavitù un terreno arduo e ancora inesplorato, un paesaggio sgradevole fino a ispirare disgusto, è proprio l’impossibilità di superarla e nasconderla, o di seppellirla. L’impossibilità, in altre parole, di accettare e far proprio quello che è un patrimonio acquisito di certa forma mentis americana: la proiezione costante in un futuro che promette spesso più di quanto non sia oggettivamente in grado di mantenere, e che per Sethe, la madre fuggiasca al centro del romanzo, si traduce in due parole cariche di senso come “libertà” e “casa”. È su una casa – non su una piantagione – che non a caso si apre Amatissima. Collocata al 124 di Bluestone Road, quando Sethe vi si è stabilita la casa “non recava un numero civico, poiché Cincinnati non arrivava ancora fin laggiù”. Bianca e grigia, contraddistinta da una totale assenza di colori, è e rimane il traguardo di una lunga fuga, un luogo di salvezza e di identità. Il fatto stesso che non abbia un nome la rende una sorta di panacea per chi, come Sethe, dei nomi ha sempre percepito la falsità, l’inganno, la natura imposta. Un 124 grigio e bianco risulta per esempio infinitamente preferibile a una piantagione che si chiamava Sweet Home, e che, come sottolinea Paul D., l’ex schiavo che all’inizio del romanzo si stabilisce a Bluestone Road, risvegliando per breve tempo in Sethe l’illusione di una famiglia, “non era dolce e non era nemmeno una casa, poco ma sicuro”. 

Ma la casa di Sethe non è un luogo di pace, tanto meno di oblio. L’incipit del romanzo non potrebbe essere più chiaro, in proposito:

“Il 124 era carico di rancore. Carico del veleno d’una bambina. Le donne lo sapevano, e così anche i bambini. Per anni ognuno aveva cercato a modo suo di sopportare il rancore di quella casa ma, nel 1873, le uniche vittime rimaste erano Sethe e sua figlia Denver”.

Il rancore appartiene alla casa, e la definisce, ma la sua origine sta tutta nel veleno di una bambina, Beloved: una presenza che infesta ogni spazio e si insinua nelle vite dei “sopravvissuti” fino a quando, con l’arrivo di Paul D., sembra finalmente abbandonare Bluestone Road, solo per tornare a manifestarsi come creatura in carne e ossa. Morrison non esita a sconfinare nel fantastico e nel gotico, spingendosi quasi a corteggiare l’horror: costruisce il personaggio di Beloved attingendo al patrimonio – tutto bianco – delle storie di fantasmi. 

Le altezze a tratti vertiginose della lingua, il superiore controllo dello stile e della costruzione narrativa, hanno indotto la maggior parte della critica a concentrarsi sulle filiazioni più letterarie del romanzo, trasformando una scrittrice complessa, in perenne e fertile equilibrio tra cultura popolare e grande tradizione, nell’ultima esponente di una linea “modernista” che trascorre senza soluzioni di continuità da Faulkner a Marquez e al realismo magico. 

Eppure, se esiste un romanzo che per tematiche e atmosfere può essere accostato ad Amatissima – e che, curiosa coincidenza, lo precede di un solo anno -, quello è It di Stephen King. È infatti perfettamente ragionevole definire entrambi questi libri, che hanno segnato l’immaginario degli anni Ottanta americani, come due riflessioni – maturate, per giunta, in piena “sbornia” reaganiana -, sul male e sul terrore che l’America porta incisi nella propria anima; sulla pericolosa correlazione tra libertà e oblio che costituisce il fondamento stesso del Sogno Americano; sulla necessità di fare i conti con il passato, di ricostruirlo e accoglierlo dentro di sé, senza esitare a dare corpo ai fantasmi. 

Se in It i protagonisti sono costretti a rinunciare al sereno oblio delle loro vite di successo per tornare a Derry, sui luoghi della loro infanzia, e concludere la loro epica battaglia contro il male, guidati dall’unico membro della loro banda – non a caso, un afroamericano – che non ha mai lasciato la città natia e che ne custodisce la storia, in Amatissima la scelta è, se possibile, ancor più radicale. 

L’oggetto stesso dell’oblio, la bambina che Sethe vorrebbe dimenticare, l’incarnazione più dolorosa della schiavitù e della sua ferocia disumanizzante, assurge direttamente a protagonista e reclama la scena; infesta a lungo la casa e, quando viene respinta, non le rimane che prendere vita, e farsi carne. Attraverso di lei l’orrore reclama il centro della scena, impedendo agli altri personaggi di dimenticare, o finire di dimenticare. Da grande rimosso, l’esperienza della schiavitù si trasforma così nell’orizzonte di riferimento dal quale la libertà stessa non può prescindere, perché ne è quotidianamente definita. 

Amatissima trascende i limiti e le regole di una tradizione più che centenaria e assurge alla forza di capolavoro e di atto fondativo proprio perché al suo centro non c’è la storia “esemplare” di una madre pronta a uccidere i suoi figli pur di non doverli vedere restituiti alla servitù, ma quella della bambina che, per effetto di quella scelta estrema, ha perso tutto, in primo luogo la capacità di far sentire la propria voce. Per tornare alla Prefazione, e lasciare spazio all’autrice e alla sua lucidissima disamina:

“Dunque era lì sin dal principio, e a parte me, tutti (i personaggi) lo sapevano: una frase che poi divenne: ‘Le donne della casa lo sapevano’. La figura al centro della storia doveva essere lei, colei che era stata assassinata, non l’assassina, colei che aveva perduto tutto e non aveva avuto voce in capitolo. Non poteva indugiare fuori; doveva entrare in casa.”

In evidenza