Racconti

"Quando la vita era piena di goal" di Fabio Stassi - Parte 1

Cronistoria fantastica del IV Campeonato Mundial de Futebol, 1942

Quando la vita era piena di goal è un monologo messo in scena da Neri Marcorè nel maggio 2018.
È la cronistoria fantastica del IV Campeonato Mundial de Futebol, Patagonia, 5-19 dicembre 1942.


di Fabio Stassi

A Osvaldo Soriano


Di tutti i calciatori, quelle dei portieri sono le storie più belle. Glielo dicevo sempre, a Osvaldo, nella mia casa di Puerto Williams. Pulivo il banco della cucina, toglievo le bottiglie che avevamo svuotato insieme e gli ripetevo: quelle dei portieri, le più belle.Le altre sono tutte già sentite. Le spacconate dei centravanti, le trame geometriche dei registi, e poi le storie dei terzini e dei mediani che sono come storie di operai, di pendolari: storie di fatiche, di calcioni e, qua e là, di qualche colpo fortunato. Vere, commoventi, ma un po’ tristi, anche se mai quanto quelle degli arbitri o dei guardalinee. Soltanto il libero aveva storie altrettanto fantastiche, perché la sua era tutta una vita di fughe e di ritorni. Ma quel ruolo è stato abolito, non esiste più. E poi, le storie dei portieri sono un’altra cosa.
Siediti che te ne racconto una.

Dicevo così, a Osvaldo. E lui si sedeva, prendeva un'altra bottiglia, si accendeva una sigaretta, tirava fuori un taccuino. A quell'ora la mia casa era deserta e a me veniva sempre voglia di parlare.
La mia casa, ah la mia casa: era bassa, di colore giallo, con una lunga terrazza sulle acque del canale, che a volte la inondavano, di notte. L’avevo comprata per istinto. Perché un posto ben nascosto bisognerebbe sempre averlo, soprattutto se si hanno trascorsi come i miei.
Quel posto era coerente con tutta la mia vita, anche se non proprio a portata di mano. Metteva in ordine i pensieri. Le cose accadute. E quelle che dovevano ancora accadere.
Oltre la regione dell’Ultima Esperanza e a qualche onda da Capo Horn. Vicino alla contrada degli uomini dai grandi piedi, i Patagoni, come li chiamò Magellano. In prossimità di un ghiacciaio chiamato Garibaldi.
Puerto Williams. Il villaggio più a sud del pianeta
Triste, solitario y final. 

Era lì, nel culo del mondo, che avevo scelto di ritirarmi dal consorzio umano. Avevo alle spalle già diversi mondiali perduti e vinti, lunghe notti di tango e di milonga a Montevideo, la guerra civile spagnola, Marsiglia, Roma, Bahia… Sapevo cos'è la dittatura, e anche la rivoluzione. Ma niente mi era rimasto più impresso di uno zingaro che suonava la chitarra senza due dita e di un ragazzino che giocava a pallone con una gamba più corta di cinque centimetri. La metrica della miseria, e del desiderio.

Osvaldo mi veniva a trovare appena poteva, per sentire i miei racconti. Com'ero finito laggiù, solo per inseguire una coppa. Una stupida, piccola, meravigliosa coppa d’oro, che splendeva più della Patagonia in certe giornate. Più dei ghiacci eterni del Polo Sur.
Osvaldo voleva diventare scrittore, e giornalista, e pensava che io avrei potuto aiutarlo a imparare il mestiere, visto che avevo lavorato in tante redazioni, e fondato anche un foglio ribelle, La Esperanza Perdida, che si occupava di calcio, politica e letteratura. Ma questo mestiere non si può insegnare. Forse voleva soltanto conoscermi, e rubarmi qualche storia. Qualcuno gli aveva detto che a Puerto Williams c’era un vecchio che per cinquant’anni aveva tentato di rubare la Rimet. E lui aveva un debole per i narratori della sventura e della disperazione. E un fiuto assoluto per i perdenti.
Pazzo. È sempre stato pazzo, anche da giovane. E rotondo. Io gli dicevo comincia a metterti a dieta, e lui mi mandava a quel paese. Non era propriamente un tipo che portava rispetto ai vecchi, no. E io allora gli urlavo Gordo, se non impari a dimagrire, come pensi che potrai scrivere! Ma lui ribatteva che pure i libri sono larghi. E che anche dio doveva essere un grassone di capocomico, visto che teatrino di marionette si era inventato.
Ma alla fine i magrolini scarni, nervosi e ossuti come me o come Stan Laurel o quell’altro, Buster Keaton, gli piacevano. Li amava. Nessuno più di loro, ripeteva pomposamente, aveva attaccato l’inalienabile principio della proprietà privata, in America.
Ah, quanti dolci di leuche, in quelle lunghe giornate passate insieme.
Sai come mi guadagno da vivere? mi chiedeva, quando era in vena. Vuoi davvero sapere come mi guadagno da vivere? Contando le anatre nel lago della mia città.
Sento ancora la sua risata.
E non c’è nient’altro che ti piacerebbe fare di più? facevo io. Sì, rispondeva, mi piacerebbe scrivere racconti strampalati e malinconici, tutto qui, sono un uomo semplice.


Era questo, Osvaldo. Un gatto solitario, come me. Da ragazzo, era stato anche un centravanti mancino di grande potenza. Aveva giocato nel Confluencia, la squadra del villaggio di Cipolletti – sono davvero curiosi i nomi dei paesi della Patagonia. Ma una volta, con un tiro, aveva quasi ammazzato un cane, e il senso di colpa e un brutto infortunio gli avevano interrotto la carriera. Non so, un giorno la porta mi si è ristretta, mi disse una sera. Così era finito a scrivere stupidate in un giornale.
Nessun argentino è un buon argentino se non ha un buon fallimento da raccontare, lo consolavo io. E intendevo nessun uomo del sud. E allora alzavamo i bicchieri, per brindarci sopra, a tutti i nostri fallimenti. Eravamo d’accordo su molte cose, io e Osvaldo. Che una società senza utopie è una società morta, per esempio. E che è meglio morire che perdere la vita.
Dai, raccontamene un’altra, vecchio, mi provocava. Raccontami di Consuelo. E di quando, a Parigi, andavi a vedere la boxe con il tuo amico Ernest.
E subito i ricordi mi ronzavano nelle orecchie come una marea.

Parigi, d’inverno, era fredda. Dai camini soffiava un fumo nero e l’aria sapeva di antracite e di pino. La legna si comprava in fascine che bisognava trasportare sulle spalle lungo scale umide e male illuminate, fino alla propria stanza. Non era una vita facile, si tirava avanti anche con meno di dieci franchi al giorno, ma avevi sempre la sensazione che ti potesse accadere qualcosa di bello o di terribile, come se in quella città abitasse il tuo destino. Chi aveva vent'anni, come me, e veniva da una città di mare, lo sentiva fischiare dietro le spalle, nel vento che spazzava le piazze, nel suono delle scarpe sui marciapiedi bagnati, nelle continue richieste di denaro degli ubriachi perché gli si pagasse un altro bicchiere, ed era come l’eco di un acordeon che ti seguiva, un tanfo di nicotina e di zafferano, era il respiro delle cose che ti si posava addosso
Ah, Ernest, l’americano: da quello sì che Osvaldo e tutti noi avremmo potuto imparare qualcosa. Voi lo conoscete come Papa, o come Hemingway, se non avete dimenticato pure questo nome. Fu lui a farmi conoscere Consuelo. Un’andalusa di Siviglia che a Parigi faceva la modella. Hemingway la pagava perché gli sedesse vicino, tre, quattro ore in silenzio. Diceva che lo aiutava a scrivere. Le modelle mica servono solo ai pittori o agli scultori… E il desiderio che suscitava Consuelo era una cosa palpabile: impregnava l’aria, riempiva gli occhi, faceva tremare la terra.
Ma di lei se ne invaghì anche un orafo che si dilettava anche di alchimia, Tristan Valmont, uno che non aveva tutte le rotelle a posto. Gli avevano commissionato un lavoro importante, un trofeo: per le Olimpiadi del Calcio.
Le mise addosso una tunica, poi le consegnò un grosso vaso.
Parfait, disse quell'invasato, parfait.
La mulherzinha alada, la Victoire aux ailes d’or, la Diosa de la Victoria era lì, davanti a lui.
Ora doveva soltanto estrarre da lei quello che volevano tutti: il desiderio che produceva negli altri e trapiantarlo in una statuetta. E poiché è l’oro il metallo del desiderio, c’era soltanto un modo per farlo: doveva fonderla, liquefarla insieme all'oro nella stessa fornace!
Ecco, l’ho detto.
È terribile, lo so. Si chiuse in una stanza e la sciolse a 1064 gradi centigradi.
Capite, adesso? Con quella lega irripetibile avrebbe forgiato il suo trofeo.
Per il mondo la Coppa Rimet fu una statuina alta trentacinque centimetri, su una base di pietre preziose, quattro chili di peso in tutto.
Per me fu una donna in carne e ossa, se vi va di crederci.


Osvaldo saltava sulla sedia quando arrivavo a questo punto. Si accendeva un’altra sigaretta, e mi sembrava quasi che gli tremassero le mani. Poi voleva che gli raccontassi subito per filo e per segno tutti i miei tentativi per rubare quella Coppa. Dal primo torneo, in Uruguay, fino al Messico.
Ma più di tutto gli piaceva la storia del mondiale dimenticato, quello di cui non esiste nemmeno una fotografia. L’unico giocato in Patagonia. Gli piaceva così tanto che ci scrisse un paio dei suoi racconti malinconici, come diceva lui, così malinconici che ti vengono le lacrime agli occhi, a leggerli.
E allora siediti, Osvaldo, siediti qui, che quella storia mi va di raccontartela un’ultima volta, prima che arrivi qualche burocrate pignolo a saccheggiarci di tutti i nostri ricordi.
All’inizio della guerra, me l’ero cavata miracolosamente, fuggendo da un campo non molto distante da Berlino grazie a un gruppo di zingari Manouche. Per qualche mese, restai con loro, suonando il violino e attraversando mezza Europa fino al fronte italiano. Con un treno, tornai a Roma con la ferma intenzione di portare a termine la mia missione. Ma nessuno sapeva esattamente dove gli italiani la conservassero, la Coppa. C’era chi diceva al Ministero dello Sport, chi a Piazza Venezia, chi a Villa Torlonia, a casa stessa del Grande Mascellone, l’Eccellentissimo, il Gran Khan, el Kuce. O sotto il letto del Presidente della Federazione Italiana Gioco Calcio, Ottorino Barassi. Per qualche tempo pensai pure di rapirlo, per chiederla in riscatto. Lo pedinai. Abitava a Piazza Adriana. Ma mi serviva tempo. Presi allora una stanza a Testaccio, a via Bodoni, da una famiglia di siciliani che avevano un negozietto di scarpe nella piazza. Con il legno e il cuoio ci sapevo fare, così mi proposi di aiutarli a bottega in cambio di un letto. Per me era una sistemazione abbastanza sicura. E loro avevano bisogno di un commesso tuttofare. Era una strana famiglia, aveva parenti in ogni parte del mondo e alle feste comandate la nonna apparecchiava anche per gli assenti, e gli riempiva il bicchiere di vino. Ogni tanto arrivavano delle lettere.


Una sera, in cucina, ne lessero una, di un lontano fratello che lavorava come capomastro in Argentina. Osvaldo nel suo racconto scrisse che era calabrese e che si chiamava Casciolo, ma è un errore. A volte faceva confusione, il Gordo, ci metteva del suo. Il vero nome di quel capomastro, invece, era Cascio, e veniva dalla Sicilia occidentale. Cascio diceva di stare bene, e che aveva trovato lavoro in Patagonia, in una diga, a Barda del Medio, nella provincia del Rio Negro. Se ne era andato dall’Europa per non finire davanti al Tribunale Speciale. Ma i fascismi lo avevano raggiunto fino in Patagonia. A Bardo del Medio era appena arrivata una spedizione di tedeschi, per collaudare ufficialmente la prima linea telefonica dal Pacifico all'Atlantico. Era tutto pronto. Gli serviva solo un pretesto per annunciarlo al mondo, perché sembrava che di notte qualcuno di loro avesse già parlato con una qualche sua fraülein a Berlino. Un trionfo sportivo sarebbe stato l’ideale. Un grande evento propagandistico per celebrare l’ingresso definitivo nell’era delle comunicazioni. Una vittoria esemplare per una telefonata esemplare. E quale trionfo maggiore poteva esserci della conquista della Coppa del Mondo di Calcio?
Mi si gelò il sangue. Era come se quella lettera fosse stata indirizzata a me.
Non so a chi fosse venuta quella stramba idea. Se a un conte di radici balcaniche, ministro plenipotenziario del re di Patagonia e vecchio amico di Jules Rimet, come disse qualcuno, o a un altro visionario. In quegli anni, nel vecchio continente di Mondiale era rimasta soltanto la Guerra. Eppure l’idea rimbalzò subito per i telegrafi delle maggiori capitali con la velocità dei buoni pettegolezzi. Berlino la sostenne immediatamente con tutto il lavoro della sua diplomazia. L’Inghilterra era isolata e aveva altro da pensare. E sul resto d’Europa sventolava la bandiera con la croce uncinata.
L’unico che non voleva quel campionato era Mussolini. Sapeva che laggiù, alla fine del mondo, avrebbe perso la Coppa, e questo gli suonava come un segno infausto, per le sorti del conflitto bellico. Ma soprattutto lo infastidiva mortalmente che a difendere la bandiera nazionale, in quel confine sperduto d’America, fosse una squadra raccogliticcia di sovversivi e di esuli senza religione. Ci furono trattative febbrili. Ciano tentò disperatamente di rimandare il campionato alla fine della guerra, che tutti si auguravano imminente. Poche settimane e anche quel maiale di Churchill si sarebbe arreso. Con un po’ di ottimismo, la finale si sarebbe potuta giocare a Londra stessa, a Parigi o a Vienna, in un tripudio di bandiere rosse e nere e di camicie grigie.
Ma i tedeschi non vollero sentir ragioni. Avevano urgenza di dimostrare al mondo il pieno dominio intercontinentale di tutte le telecomunicazioni. Così Ciano dovette firmare una indecorosa capitolazione e spedire immediatamente la Coppa in Patagonia. Fu approntata una staffetta di voli che avrebbe raggiunto in pochi giorni l’obiettivo. Naturalmente, nessun giocatore professionista avrebbe potuto far parte della spedizione. Un dispaccio di mano diretta del Fürher diede quindi il via libera al varo del torneo, con l’ordine di farlo nel modo più rapido possibile.
I tedeschi che si trovavano lì impazzirono subito dalla gioia. Niente li avrebbe fermati. Non certo un gruppetto di vagabondi e ubriaconi argentini, o una compagnia scalcinata di preti e operai polacchi, né delle squadre improvvisate composte da qualche occhialuto intellettuale francese o da un gruppo di pescatori cileni, di negozianti spagnoli e di anarchici e manovali italiani. Nelle suole della Terra, là sotto, quegli aitanti e granitici ragazzoni ariani non avevano atleticamente rivali.
Si erano pure portati il primo pallone con valvola automatica inventato ad Amburgo. In realtà solo perché pensavano di palleggiarci nelle ore di ozio. Non potevano certo immaginare che con quel pallone si sarebbe disputata la finale del quarto Campionato del Mondo di Calcio.


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