Anteprima

"Morire per sopravvivere": un estratto in anteprima

È apparso su Robinson, l'inserto culturale di Repubblica, un estratto in anteprima da Morire per sopravvivere di Chuck Klosterman, in uscita a giugno 2018. Ve lo proponiamo qui in versione integrale. La traduzione è di Maurizio Bartocci su licenza Mondadori Libri S.p.A.

di Chuck Klosterman

Cazzo, amico. Questa faccenda è davvero complicata. Non ho proprio idea di come viaggi la gente.Non ho proprio idea di cosa mettere in valigia.

Quanti pantaloni servono per un viaggio di tre (forse quattro) settimane? Meno di quanto immagini, scommetto. Mi servirà più di un paio di scarpe? Mi sembra poco probabile, ma direi di sì. Forse tre? È un incubo. Devo portarmi dei cappelli? Uno, forse. E una felpa. D’accordo, sarà pure agosto, ma non è comunque difficile immaginare uno scenario in cui la felpa potrebbe rivelarsi un investimento assai proficuo. Ma si presenterà veramente questo scenario? Ho già perso di vista il nocciolo della questione? Io non potrei mai essere uno di quelli che scalano le montagne per diletto. Sarei piuttosto uno di quegli stupidi che muoiono a mezza costa dell’Everest perché si sono portati più cacao in polvere che corda.

Dovrei forse spiegare perché sto facendo le valigie. Innanzi tutto vorrei dire questo: la morte fa parte della vita. Generalmente ne costituisce la parte più breve che, di norma, si presenta alla fine. Ma questo non è necessariamente vero per le rock star, che certe volte cominciano a vivere solo dopo essere morte. Io voglio capire perché.

Due mesi fa ho ricevuto un’e-mail dalla mia sensazionale e bionda caporedattrice, che mi chiedeva se avessi interesse a occuparmi di una «storia epica». Il termine «epico» trova poco impiego nella redazione di «Spin», se non per misurare i disastri pubblici dei colleghi e/o descrivere i problemi della gente legati all’alcol. La mia e-mail di risposta alla sua domanda è stata: «Sì, naturalmente». Tut­tavia, nessuno dei due aveva la benché minima idea di come dovesse essere il servizio, e – a giudicare dalla descrizione – temevo che avesse a che fare con la costruzione di una riproduzione in dimensioni reali di una nave vi­chinga del I secolo.

Nel corso delle due settimane successive, mi recai più volte nell’ufficio della mia caporedattrice per parlare di quello che sarebbe dovuto essere il servizio. Lei se ne stava seduta dietro la sua scrivania mentre io facevo avanti e indietro gesticolando in maniera stupida e stravagante, molto simile a un giovane Benito Mussolini. È difficile essere epici a comando, specialmente se non si ha l’idea di cosa costituisca un comportamento epico. Per qualche misteriosa ragione, la mia caporedattrice era convinta che bisognasse mettersi in macchina e fare un sacco di strada. Benché ignorassimo dove sarei dovuto andare o cosa avrei dovuto fare, sembrava cruciale il fatto che ci mettessi un sacco di tempo per arrivare a destinazione; era in questo che risiedeva tutta l’«epicità» dell’evento.

Decise infine che mi sarei dovuto recare in tutti i luoghi marginalmente interessanti del rock’n’roll all’interno degli Stati Uniti continentali e «fare esperienza» di cosa significava essere fisicamente lì. Secondo le nostre stime, per compiere questo viaggio ci sarebbero voluti un po’ meno di quattrocento anni. Un arco di tempo che appariva adeguatamente epico, e io non avevo niente di meglio da fare. Nei giorni seguenti tentai di tracciare un abbozzo di odissea, un compito che però presentava un problema imprevisto: cos’è che merita l’appellativo di «marginalmente interessante»? Le risposte che riuscivo a darmi erano sempre e solo due: quasi tutto e assolutamente niente.

È «interessante» il negozio di barbiere della città natale degli ZZ Top? È «interessante» la stanza che aveva Madonna da bambina? Sono «interessanti» gli appartamenti in cui Jerry Garcia è andato ad acquistare eroina? Chissà. Sembrava esserci una bella dose di relativismo morale nelle mie potenziali peregrinazioni. Comunque sia, giunsi alla conclusione che un pugno di luoghi sono sempre interessanti: ho sempre trovato irresistibili i luoghi in cui è morto qualcuno. Forse perché non smetto mai di pensare alla morte; a mio avviso, delle cose che fanno tutti, questa è senz’altro la più interessante. Ciò è soprattutto vero per le celebrità.

A meno di chiamarsi Shannon Hoon [Cantante del gruppo Blind Melon, morto nel 1995 a 28 anni. (Ndt)], la morte è l’unica garanzia per una rock star di lasciare un’eredità che vada oltre un interesse passeggero. Da qualche parte, in un certo momento, in una certa maniera, qualcuno ha deciso che la morte sia uguale alla credibilità. E io voglio capire perché è così. Voglio scoprire perché la scelta migliore che un musicista possa fare per la sua carriera sia quella di smettere di respirare. Voglio scoprire perché gli incidenti aerei, le overdose e i colpi di pistola alla tempia trasformino dei chitarristi capelloni in profeti messianici. Voglio percorrere le strade insanguinate del rock’ n’ roll e chiacchierare con i superstiti che si contorcono nei canali di scolo. Questa teoria è diventata la mia ricerca.

Anziché recarmi nei luoghi dove tutto è successo, andare nei luoghi dove tutto è terminato. Andare incontro alla mia morte.

«Per fare questo» ho detto alla mia sensazionale e bionda caporedattrice, «avrei bisogno di un’auto a noleggio.» La morte cavalca un cavallo bianco, ma io guiderò una Ford Taurus Silver. Al momento si trova parcheggiata davanti al mio appartamento. Quando giro la chiave di accensione, decido di ribattezzarla «Ford Tauntaun», giusto nel caso in cui, imbattendomi in una bufera di neve in agosto, avessi bisogno di infilare un Luke Skywalker congelato nel confortevole blocco motore.

Benché non lo sappia ancora, mi ritroverò alla fine ad aver percorso con questa bestia 10.552 chilometri, guidato da un psichedelico che mi parla con una voce femminile autoritaria ma rassicurante, che ricorda vagamente Meredith Baxter-Birney negli ultimi anni di «Casa Keaton». Se ignorate il funzionamento di un gps (e fin quando non ho noleggiato questa Tauntaun, lo ignoravo pure io), immaginate un marchingegno che potrebbe esistere solo nella Tokyo del 2085. Si tratta di una scatola sul cruscotto, con una mappa digitale in perpetuo cambiamento e che mi parla, letteralmente, fornendomi giudiziosi consigli. Mi dice quando lasciare l’autostrada e quanto disto ancora da luoghi come Missoula, Montana, e come localizzare il più vicino Red Lobster.[Catena di ristoranti specializzata in frutti di mare. (NdT)]

Questa sirena meccanica mi condurrà lungo la costa orientale, attraverso il Profondo Sud, su per la colonna vertebrale coperta di granoturco del Midwest e oltre i contrafforti riarsi del Montana, per fermarsi finalmente in cima all’Oceano Pacifico, sotto un ponte dove Kurt Cobain non ha mai dormito.

Nel corso di questo viaggio, mi fermerò nei punti in cui sono invece cadute 119 persone, per la maggior parte vittime involontarie della scintillante falce del rock. E questo mi insegnerà qualcosa che sapevo già. Ma questo appartiene al futuro.

Per adesso, sono intrappolato nel presente, in piedi nella mia camera da letto, con una felpa con cappuccio fra le mani, lo sguardo fisso sulle sue cordicelle viperine, a interrogarmi silenziosamente sul suo valore. Certe volte mi piacerebbe vivere nel 2085, quando indosseremo tutti la stessa tuta e ci nutriremo di melma vitaminizzata.

Naturalmente, in fin dei conti, i vestiti non sono che una preoccupazione secondaria; mi sta a cuore molto di più a) quali cd mettere in valigia e b) quanta erba portarmi appresso.

La prima è una questione particolarmente incalzante; mi sono appena comprato un iPod, ma non so come collegarlo all’autoradio. Mi toccherà combattere questa guerra in maniera convenzionale, e questo è un punto davvero cruciale perché, per quel che ne so, l’unico elemento di piacere di tutto il viaggio sarà quello di starmene seduto al volante della mia auto a noleggio e sfondarmi il cranio con una musica assordante.

Mi sono trasferito a Manhattan nella primavera del 2002 e da allora non ho mai posseduto un’auto; in linea di massima, essendo uno dei peggiori conducenti d’America, ne sono felice. Guidare non mi manca affatto e probabilmente sono il peggior candidato che si possa immaginare per un rally automobilistico transcontinentale. Tuttavia, il rock in macchina mi manca, e mi manca tremendamente.

Adoro il modo in cui la musica in macchina ti fa sentire invisibile; se mettete il volume dello stereo al massimo, è quasi come se la gente non potesse vedere all’interno della vostra vettura. In un certo senso, vi oscura i finestrini. Mi ci vorranno tre ore per decidere quali cd depositare sul sedile posteriore della mia Tauntaun. È il genere di dilemma che impedisce alla gente come me di dormire.

La guerra nucleare, l’economia o la necessità di creare uno Stato palestinese non sono mai per me fonte di inquietudine, ma passo invece un sacco di tempo a darmi pena per decidere se è il caso di comprare, per completezza, gli album meno-che-stellari dei Rolling Stones usciti a partire dagli anni ’80 (in particolare Undercover, che contiene la semi-sottovalutata Undercover of the Night). [Il videoclip della canzone, fra l’altro, contiene l’esecuzione di Mick Jagger da parte delle forze armate dell’America Centrale. Da quel che ricordo, Mick viene ucciso da Keith Richards, ma forse confondo questo video con la scena d’apertura del film Crocevia della morte.]

Posseggo 2233 cd, all’incirca il 30 per cento dei quali li ho avuti in omaggio dalle case discografiche; e questa cifra rappresenta meno dell’1 per cento dei dischi promozionali che ho effettivamente ricevuto. Un altro 30 per cento di quei 2233 cd l’ho ascoltato meno di cinque volte, e uno (The Best of Peter, Paul and Mary), non l’ho ascoltato neppure una volta: è ancora nel cellophane, lo tengo accanto a una copia usata di Zen Arcade degli Hüsker Dü, sperando che lentamente si fondano in una raccolta di lati B dei Pixies.

Direi che ho avuto due copie di almeno 500 di questi album (una su cassetta e una su cd) e tre di altri (per esempio, ho comprato i 26 album dei Kiss su cassetta, poi li ho ricomprati tutti su compact disc e poi di nuovo su compact disc quando sono stati rimasterizzati nel 1999, che di fatto significa solo che qualcuno è tornato in studio per registrarli con un tono più forte). Non ho mai posseduto nulla in vinile, a parte The Yes Album ed Electric Warrior, che mi sono stati entrambi inviati gratuitamente dalla Rhino Records (anche se non avevo un giradischi).

Il primo cd che ho comprato in vita mia è un acquisto che risale al 1989: Stairway to Heaven/Highway to Hell, una compilation di gruppi hair-metal che eseguivano cover di canzoni di icone morte per abuso di stupefacenti (gli Scorpions eseguivano la cover di I Can’t Explain degli Who, i Cinderella rifacevano Move Over di Janis Joplin, e via dicendo). L’ultimo, invece, risale a due giorni fa ed è Diary dei Sunny Day Real Estate. L’unico cd che abbia mai rubato (per davvero) è invece The Best of the Doors, un doppio album che da ubriaco mi sono infilato nei pantaloni durante un birra-party nel 1991 (e quando dico «per davvero» intendo «a meno che non si conti il saccheggio del music club Columbia House»).

Ho 14 dischi (contando, ovviamente, anche il cofanetto The Aeroplane Flies High degli Smashing Pumpkins, dei quali me ne piacciono soltanto due. Ho tutto quello che è uscito di Britney Spears perché credo che un giorno «ne avrò bisogno», anche se non ho alcuna teoria che giustifichi una tale necessità.

Ho più cd io che il 99 per cento dell’America, ma meno del 40 per cento dei miei amici; se un conoscente ha più cd di me, mi sento intimidito e quasi svirilizzato. Penso spesso ai miei cd. Trovo stranamente rassicurante guardarli quando sono sbronzo. In questo preciso momento, i miei occhi stanno scandagliando i titoli sistemati in ordine alfabetico, e mi chiedo quanti di loro attraverseranno l’America con me. Tutto dipenderà da questa decisione. Essendo lo spazio limitato, posso solo scegliere quegli album che sono innegabilmente essenziali.

Decido di portarmene appresso 600.

 

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