Racconti

Il deserto e la memoria: un racconto di Orso Tosco

Il 17 maggio arriva in libreria Aspettando i Naufraghi, il romanzo d'esordio di Orso Tosco. L'autore lo presenterà in anteprima venerdì 11 maggio alle 16.30 al Salone del Libro di Torino, ospite dell'incontro Emergenti a cura di Christian Raimo (Spazio Incontri). Nel frattempo, vi invitiamo a leggere questo racconto inedito.


di Orso Tosco

All my life I had nothing,

but worse than that,

I wouldn't share it.

Bill Knott


Ogni luogo custodisce la propria vocazione, dissimulandola o esibendola. La vocazione di Los Angeles non è il culto delle celebrità e del loro declino, non è neppure la vastità dei quartieri, l'opulenza delle ville e lo squallore degli accampamenti sparsi lungo i ritagli di terra delle autostrade. La vocazione di Los Angeles è il deserto. 

Il deserto dalla generosità maestosa sovverte i confini d’ora in ora, li disegna nella polvere per allargarli e subito dopo, sfruttando la diversa disposizione delle ombre e delle pietre, per smentirli con nuove forme o meglio con nuove ipotesi. Allo stesso modo Los Angeles è ingannevole, mutante. Puoi guidare per ore senza riuscire a scorgere un solo punto fisso, le spiagge s'interrompono per lasciar spazio ai cactus abbarbicati sulle pareti rocciose delle colline, i musei scintillanti scolorano in squallidi centri commerciali, presto pallide periferie li sostituiscono, e poi strade pattugliate da turisti stanchi, anonime villette a schiera illuminate dal bagliore di un liquor store, castelletti di gusto bavarese, chiese moderniste ancora più improbabili, piscine paradisiache nascoste dietro siepi immacolate, pompe di estrazione petrolifere, tende da campeggio barricate dietro carrelli della spesa. 

Polvere alla polvere. Los Angeles è pronta, è tutto il mondo ed è soltanto polvere. Anche il mare è polvere, anche le nuvole, anche le ombre anonime degli uomini e quelle rigorose dei cartelloni pubblicitari. 

Rimangono le palme. Lunghe e scheletriche come giganteschi colli di giraffa, le palme ondeggiano pure in assenza di vento, per accompagnare gli impercettibili movimenti sismici costantemente all'opera, per sfregiare il blu oltreumano del cielo sfinito.

Il signor J. Pataka mangia con poca convinzione il suo hot dog nel retrobottega di Pink's. La luce del neon che illumina il negozio fa apparire i pezzetti di bacon sopra la sua salsiccia dello stesso colore dei muri interni: rosa, quasi fucsia. Pataka osserva il guacamole e pensa alla forma dei fianchi della donna che in questo preciso istante prova a difendersi. Assaggia il guacamole e pensa all'odore del fiato dell'uomo che cerca di strozzarla, alle sue mani da vecchio, a Milles e alle sue occhiaie sporche di sangue. Il guacamole sa di coriandolo e peperoncino, Pataka morde un pezzo di salsiccia, qualcosa di duro lo ferisce ad un dente. Sputa l'oggetto che l'ha ferito. Un dado di ferro. Pataka odia questo genere di simboli. E quando vi s'imbatte avverte la dolorosa certezza di meritare di meglio. È pur sempre un morto, deve meritare di meglio.  

Una ragazza triste lo sta guardando con una espressione da marshmallow. È seduta da sola a un tavolino poco distante, piange. L'uomo che stava mangiando con lei le ha dato una brutta notizia e poi se n’è andato come nulla fosse. Le ha spezzato il cuore con parole senza amore, e così lei è rimasta seduta a bere un milk shake al mango, e adesso fissa il signor J. Pataka con occhi strabici e truccati male che le donano. Anche la maglietta troppo stretta e gli orecchini volgari le donano. 

- Ci saranno altre Parigi e altri campi fioriti. Arriveranno nuovi numeri di telefono e nuova biancheria intima. L'estate lunga e infelice germoglierà, lasciandoti tracce sulla pelle simili a quelle dei calzini indossati troppo a lungo. Morirai sola e impaurita e sarai bellissima, molto più bella di qualsiasi sole, di qualsiasi truffa.

Pataka sussurra all'orecchio della ragazza triste, in una lingua che lei non capisce ma che le è chiara come una lama. La ragazza è disperata e riconoscente, così riconoscente che vorrebbe baciargli la mano, come si fa con il Papa, con il Re. Ma J. Pataka non è il Papa e non è un Re, J. Pataka è un uomo morto ed è in ritardo. 

- Andiamo.

- Non ho ancora finito.

- Hai finito, Milles. Andiamo.

- No. Manca ancora qualcosa. Mi serve un altro po' di tempo.

- Lo sai, sono qui proprio per dirti come usare il tempo.

- Ma non lo vedi come è bella? Non lo vedi come luccica?

- Vedo soltanto un vecchio con la faccia da cane e una donna morta.

- Siamo dentro un fiore, dentro un alveare.

- Siamo dentro la stanza di un motel gestito da un tossico che ascolta musica country e ama essere sculacciato. C'è odore di ammoniaca e c'è odore di merda. E se non ti sbrighi ti indosso come una giacca. 

J. Pataka si occupa di movimentazione merci. Gli articoli che ha l'incarico di trasportare non sono molto ingombranti. Sono morti, morti e soli come lui, così gli basta la sua Toyota grigia metallizzata. Vicino a lui è seduto un vecchio con gli occhi costantemente spalancati di nome Milles: è il carico assegnato. 

Milles con il gilet di jeans coperto di toppe colorate, i pantaloni di pelle e quella specie di basco color marmellata di more che porta in testa, sembra un fan dei Jefferson Airplane molto disturbato. Voglio essere Brigitte Bardot, ha risposto Milles quando Pataka ha provato a fargli indossare un paio di sandali di plastica. E così gira scalzo. Mastica in continuazione delle cicche che odorano di medicinale per la tosse. Ha gli occhi spalancati e la bocca cattiva, cattiva e patetica, troppo aperta quando pronuncia frasi melliflue, troppo chiusa, a buco di culo, quando ritiene di pronunciare aforismi terrorizzanti ed enigmatici.

Pataka preferisce non ascoltarlo. Quando Milles non parla da solo (per la maggior parte del tempo Milles parla da solo), Pataka si limita ad accentuare le rughe che già gli rigano la fronte e a sputare fumo dal naso. Pataka fuma senza sosta, dice che lo aiuta a concentrarsi mentre scrive. Il fatto che non scriva una singola parola da millenni non ne fa un bugiardo. Ci sono infatti molti, infiniti modi di scrivere. Pataka scrive non smettendo quasi mai di fumare, scrive non smettendo quasi mai di bere, scrive non smettendo quasi mai di guidare. La sua scrittura s’incide proprio in quel quasi mai, nella contemplazione dell'eternità. Eternità che per lui, costretto a viverla, è un grumo di burro, di cera e grasso animale congelato. Sulla sua superficie accadono storie, storie che raccontano l'agguato, l'assorbimento e la somministrazione. Storie che raccontano il gelido amore dei morti. 

- Dove cazzo stiamo andando? 

- Da nessuna parte.

- Ma allora non potevi lasciarmi nel motel con la mia amica? Non hai visto che stavo per insegnarle una bella coreografia?

- Stava arrivando la polizia.

- Che mi potevano fare? I morti non li arrestano. E comunque preferirei tornare in galera che starmene tutto il giorno qui con te, a perdere tempo in questa cazzo di autostrada intasata.

- Sei stupido come un applauso. Il tempo non si può perdere, Milles. I momenti si perdono. I ricordi si perdono. Il ritmo si perde. Ma il tempo no, il tempo lo si può soltanto subire.

- È questo che facciamo noi qui? Subiamo il tempo?

- No Milles. Io e te siamo fuori dal tempo. Noi siamo qui a guardare gli altri che lo subiscono.- Perché?

- Perché dobbiamo.

J. Pataka non lo ammetterebbe mai, perché gli piace dare l'impressione di avere tutto sotto controllo, ma la verità è che non sa se anche la sua vita precedente, quella da vivo, fosse caratterizzata da imperativi tanto esigenti quanto quelli che caratterizzano la vita dei morti. Crede di no, non ricorda di aver subito pressioni tanto violente durante la scorsa vita. Forse solo il respiro. Forse la respirazione è l'unica attività che possa essere paragonata al tipo di dovere che avverte ora. 

Il suo compito consiste nel trasportare Milles attraverso quegli stessi luoghi in cui Milles è già stato, in modo che possa ripetere ancora una volta i gesti, che ne possa avvertire la pochezza e, dentro quella miseria, possa forse diventare altro. 

Una volta modificato, Milles verrà ricondotto nella quiete abbagliante in cui i morti riposano e dimenticano. Per poi essere nuovamente estratto e nuovamente ricondotto negli stessi luoghi, lungo le stesse strade, nelle identiche stanze, a compiere ancora una volta gli stessi gesti, che diventeranno sempre più pallidi, sempre più mediocri. La vita dei trasportati è racchiusa dentro lo stupore da loro sperimentato nel ricordare l'eccitazione del passato, dentro l'incredulità per essere stati così sciocchi e puri nell'infamia. 

- Hai voglia di suonare la chitarra, Milles? Ti piace suonare, no?

- Mi piace molto. Sono bravo con la musica. Ero famoso, sai? Facevo ballare le ragazze.

- E allora suona. Prendi la chitarra. È dietro di te.

- Prima non c'era. Sono sicuro che fino a un attimo fa non c'era.

- I nativi di queste parti devono aver pensato la stessa cosa vedendo arrivare gli spagnoli. Ma non mi pare abbia fatto una gran differenza, dico bene? Suona Milles. Fai ballare le ragazze.

Il tramonto è una dissolvenza al rosa, è il tentativo fallito e splendido del cielo di scrollarsi di dosso la polvere del deserto che non vuole lasciare la presa. Mentre artigli di vento scalfiscono le squame trasparenti dell'orizzonte, gruppi di delfini divorano sgombri davanti a Venice Beach e i ragazzini felici fumano crack nascosti dentro i loro cappucci, affidandosi alla breve e rassicurante quiete che li separa dalla prossima fumata. Sopra di loro, le scie degli aeroplani abbozzano traiettorie simili a quelle delle tappezzerie geometriche dei mezzi pubblici, ma il blu oltreumano del cielo, prima di soccombere, le ingoia una ad una. Le luci dei fari delle macchine appaiono e scompaiono come occhietti di lemuri. I cespugli assetati accolgono i topi e i brandelli di plastica persuasi dal vento a perlustrare le strade, le molli e capienti strade e i cortili interni delle case, rifugio per i primi tentativi della notte. 

La notte inizia nei garage, la notte comincia nelle tasche vuote, nelle bocche asciutte, nelle lettere fulminate delle scritte al neon. La notte debutta dentro le incrostazioni nere che segnano le pipe di vetro dei giovani fumatori di crack. I giovani a cui Milles ha offerto da fumare, perché vuole comprare la loro attenzione. 

Milles ha sempre amato parlare alla gente, piacere alla gente, Milles ha bisogno di convincere le persone. Non gli basta sentirsi unico, speciale, persino ora, persino da morto, a Milles serve che gli altri confermino la sua unicità, che lo adorino. È il suo modo di essere padre, di essere padre e marito, capofamiglia. 

Una volta funzionava: e così Milles recita le sue poesie, indica gli astri ancora pallidi e li chiama per nome, gli assegna nomi di creature mitiche, di demoni e angeli, e canta l'amore dell'universo con la sua voce da cane melodioso. Ma la sua faccia da morto è vecchia come la faccia di un vecchio carcerato, ha un'aria patetica e stanca che fa pensare alle file per il sussidio, alle sale d'attesa degli ospedali per chi non ha l'assicurazione. 

I ragazzini fumano e bevono cherry coke tiepida, hanno i volti tatuati, i capelli impolverati, gli occhi vuoti come quelli degli angeli. Milles si rivolge specialmente alle ragazze: ha sempre adorato piacere alle ragazze. Dice che tutti i bambini abbandonati dalle proprie madri provano a vendicarsi delle altre donne facendole innamorare, sperano così di colpire l'unica donna da cui davvero avrebbero voluto ricevere amore. 

L'amore della madre di Milles, se amore si può definire, fu brusco come il rinculo di un fucile. E lui ha trascorso tutta la propria esistenza, che continua anche nella morte, cercando quella famiglia e quell’amore. Ma le giovani fumatrici hanno davanti ai loro occhi vuoti solo un vecchio che gesticola, un vecchio che parla di arcobaleni e apocalissi, un vecchio sporcaccione con la testa fritta dagli acidi.  

Milles si accorge che il suo monologo non sta sortendo gli effetti sperati. Non può non notare la poca attenzione, le risatine, non può ignorare la centralità della pipa di vetro di contro ai suoi sermoni inascoltati. Come un politico disperato alza la voce, gesticola con più vigore, quasi canta. Le orecchie dei giovani fumatori si riempiono delle sue allucinazioni esoteriche e carcerarie. Ma nemmeno il canto ottiene risultati soddisfacenti. Milles esaurisce il patrimonio di visioni e invocazioni, polli decapitati sopra il banco di un macellaio vicino alla bancarotta. 

La bancarotta arriva con la fine del crack. I giovani fumatori non hanno voglia di sprecare gli effetti della droga sentendo il vecchio che delira. Si sparpagliano sulla spiaggia, a coppie o in solitudine. I loro giovani corpi sulla sabbia soffice, i loro giovani corpi ripieni di sostanze mortali e gioiose, gli occhi aperti sul cielo stellato che fa loro da tramonto.

J. Pataka è seduto in un bar e beve, come fa quasi sempre. E come quasi sempre si lascia sbranare dai ricordi. J. Pataka ricorda soltanto volti corpi e voci. Ricorda il modo in cui certi corpi ridevano, il modo in cui certe bocche custodivano la sua bocca e le sue dita, il suo nome, e il modo in cui il semplice passaggio di un collo o di una presenza incerta potevano promuovere la vita a una condizione diversa. Più dolorosa, e necessaria. 

J. Pataka scrive con il fumo che gli esce dalla bocca, scrive spingendo la lingua secca come manzo essiccato contro i denti ruvidi, scrive con le ossa, in attesa, seduto sopra lo sgabello di un bar vuoto. Ricorda l'amore e lo subisce. Gli altri subiscono il tempo e lui subisce l'amore. Subisce la consapevolezza di essere ancora così sentimentale. Perfino dopo la vita, ancora così sentimentale. 

Il whisky sa di terra, ha il calore d'interiora appena estratte. J. Pataka vi ritrova i propri anni da vivo, il desiderio, la rabbia di quegli anni, la dolcezza con cui li ha sprecati. 

Dal bagno provengono rumori orribili e stupidi, quelli di ogni colluttazione, e Pataka si domanda come sia possibile che Milles abbia ancora tutta questa voglia di uccidere, come possa non accorgersi di quanto uccidere sia patetico, bambinesco e inutile. Immagina la sua bocca soddisfatta e sporca, vicina al volto della barista, piccolo volto dai denti simili a mandorle, e immagina la croce uncinata sulla fronte di Milles, tatuaggio che è ormai è soltanto una macchia confusa, dopo troppi anni, dopo troppi ripensamenti. 

Il whisky e cola sa di canotto gonfiabile, di anestesia che finisce, di occhiali da sole nuovi. J. Pataka si domanda se non sia per lui questa punizione, per lui soltanto. Se questo trasportare Milles attraverso le stesse tappe della sua vita precedente altro non sia che un modo per obbligarlo ad accettare il fatto di non aver mai vissuto che tentativi di racimolare un’imminente nostalgia della vita. J. Pataka si domanda se la sua vita non sia stata altro che un accumulo di materiale per un museo vuoto, intitolato al rimpianto. 

Ma poi, all'improvviso, J. Pataka ride. Ride e scrive, scrive qualcosa nel colpo di tosse che segue alla risata ed è assurdamente felice. Vede un uccello entrare dentro il bar, incurante del fumo e della musica, incurante della luce sporca dei neon. Ha il collo e il becco lunghi, il corpo magro, si muove lentamente fino ad arrivargli davanti, poi si ferma e lo fissa. J. Pataka sa che è ora di andare. 

- Pataka, perché non mi chiami Charles come tutti?

- È solo per renderti meno ovvio, Milles, meno prevedibile.

L'alba di Los Angeles è una colazione abbondante. Il calore del primo sole è il tepore delle uova strapazzate, il crepitio delle gomme sull'asfalto è lo sfrigolio della carne sulla griglia, la luce del cielo cola come sciroppo, le persone assonnate sono frittelle per un lato crude e per l’altro troppo cotte. 

I morti continuano il loro viaggio, la luna di miele tra Los Angeles e il deserto.                 
 



(Immagine: Jacob Repko via Unsplash)

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