Eduardo Savarese racconta il «Nabucco»

L'autore di «Le cose di prima» sull'opera di Giuseppe Verdi

Nel suo romanzo Le cose di prima Eduardo Savarese ha provato a trasferire l'impianto del melodramma in un romanzo.
Appassionato di musica, in questo articolo racconta il Nabucco di Giuseppe Verdi (in scena al Teatro San Carlo di Napoli fino al 14 ottobre)
 

La stagione del teatro San Carlo si avvia a chiusura con il Nabucco, opera giovanile particolarmente baldanzosa di Giuseppe Verdi (la sua terza: prima esecuzione a Milano il 9 marzo 1842). Non credo ci sia stato un piano consapevolmente coerente nello scegliere, per la stagione lirica quasi conclusa, due titoli che sono in profonda comunicazione l’uno con l’altro. Ma ciò che conta è l’esito. Ed è particolarmente significativo assistere ora al Nabucco, dopo che, a marzo, è stato messo in scena il  Mosè di Rossini, il quale, come l’opera verdiana, rappresenta un pezzo della storia del popolo eletto da Dio, e delle sue dolorose peripezie. Se nel Mosè è la tormentosa uscita dall’Egitto a essere narrata fino all’aprirsi delle acque del Mar Rosso, in Nabucco il popolo ebraico è alle prese con la furia distruttrice e sacrilega del re degli Assiri, e con la afflitta fase della cattività babilonese.

In entrambe le opere, il momento della preghiera corale è al centro dell’ispirazione musicale e della resa drammatica. Il celeberrimo Va’ pensiero tende le mani idealmente al rossiniano Dal tuo stellato soglio, e la lontananza nostalgica di un popolo in esilio, metafora più ampia di un esilio esistenziale dell’uomo rispetto alla sua Origine, trova la sua espressione perfetta (tra il singhiozzo e il respiro sincopato) nell’arpa.

Verdi sceglie di aderire alla versione, tra il religioso e il mitologico, che vuole il re assiro Nabucco uscire di senno dopo aver offeso l’unico e vero Dio di Israele, vagare solitario e quasi selvaggio (nel testo biblico nel deserto, in Verdi nelle sale del suo palazzo dov’è chiuso, prigioniero), e finalmente rinsavire, convertendosi a quel Dio, liberando gli Ebrei, e abbattendo l’idolo della falsa divinità assira: Belo.

La figura più avvincente di quest’opera dai ritmi incalzanti, che fecero tributare al giovane compositore il suo primo eclatante successo, resta però quella di Abigail, avvolta in una cortina complessa fatta di dualità. Abigail è la figlia del re, e vuole il potere. Ma si scoprirà poi essere soltanto una figlia di schiavi, cresciuta nella reggia. Da questa scoperta sconvolgente, ella trae un odio feroce verso Nabucco (che le ha mentito) e verso la sorellastra Fenena, vera figlia di Nabucco e destinataria di tutte le attenzioni paterne. Abigail sradica le mollezze del sentimento dal suo cuore, eppure ama con ardore il principe ebreo Ismaele, e sa come questi ami però l’odiata Fenena. Il suo è un amore ricercato, ma sempre rifiutato: dal padre, dall’amato, dalla sorella. I sacerdoti di Belo (già Verdi qui esprime tutto il suo disgusto per le ingerenze ecclesiastiche nel potere secolare) strumentalizzano l’odio di Abigail per tentare di rovesciare Fenena e Nabucco, ormai sensibili alla causa ebraica. E lei ci casca dentro appieno, per il desiderio di assistere al momento in cui “regie figlie qui verranno l’umil schiava a supplicar”.

Abigail entra in scena con note cupissime, praticamente virili (“Prode guerrier, d’amore conosci tu sol l’armi?”), per irridere Ismaele e Fenena, e il loro sentimento infantile: ma subito proclama il suo amore per quest’uomo ingrato (“Io t’amava, il serto, il core pel tuo core io dato avrei”); la seconda parte inizia con la sua maledizione forsennata contro il “falso padre”, la sorella, il regno intero e lei stessa: eppure, intona subito dopo un’aria di dolcezza struggente, che ci rivela la sua vera identità, fatta di amorevolezza e empatia; infine, nell’ultima scena, fa il suo ingresso, piegata dal veleno che le hanno fatto ingurgitare, per chiedere perdono a Fenena e… senza quasi rivolgersi a Nabucco, al dio d’Israele. Al quale chiede di non essere maledetta.

Per quelle meravigliose eterogenesi dei fini che il processo creativo spesso facilita e benedice, il vero esilio di quest’opera non è tanto quello del popolo ebraico dalla sua terra e dalla sua Sion, quanto quello, universale e senza tempo, della singola creatura, combattuta tra ambizioni smodate e emozioni benevole, che perde di vista la cifra originaria della creazione: l’amore, l’empatia e la misericordia.

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