Cronaca di uno scandalo annunciato

Prefazione al romanzo di Mary McCarthy «Il gruppo»

Cronaca di uno scandalo annunciato

di Luca Briasco

[prefazione a «Il gruppo» di Mary McCarthy]


L’11 dicembre 2017, il New Yorker ha ospitato un racconto di una ventina di pagine che ha battuto ogni record di visualizzazioni online, suscitando un dibattito sui media che ha raggiunto anche l’Italia. «Cat Person» – questo il titolo – è la storia di una ragazza ventenne che studia in un college e lavora nel bar di una sala cinematografica, e di un uomo di trentaquattro anni che vive solo con due gatti – o almeno, così sostiene: i due gatti non si vedranno mai, e la ragazza finirà per chiedersi se esistano davvero – e con il quale, dopo un lungo corteggiamento a colpi di sms, la protagonista trascorrerà una nottata di sesso scadente.
La discussione sul racconto e sulla sua autrice, Kristen Roupenian, è stata ricca e articolata: c’è chi si è soffermato sull’esattezza sociologica con la quale viene rappresentato il sesso tra i cosiddetti millennial, in un contesto nel quale le relazioni vengono spesso edificate su base virtuale per poi dissolversi al primo incontro; chi ha preferito focalizzare lo sguardo sulla totale mancanza di indulgenza con cui la protagonista si autorappresenta, mettendo in scena il proprio asservimento alle aspettative maschili che la induce a consumare un rapporto anche dopo essersi resa conto di quanto sarà deludente; chi, infine, ha cercato di sottrarsi alla trappola di una lettura in chiave sociologica e ha sottolineato l’indubbia efficacia della costruzione drammaturgica e l’asciuttezza di uno stile privo di qualunque compiacimento e funzionale alla definizione dei personaggi e alle dinamiche dei loro rapporti.

La raccolta di esordio della Roupenian, You Know You Want This, è stata appena pubblicata negli Stati Uniti, ed è ancora troppo presto per stabilire se il clamore che ha circondato «Cat Person» sarà confermato: resta però il fatto che il racconto di dicembre 2017 si è inserito di diritto in una tradizione di opere firmate da donne nelle quali i paradigmi delle relazioni intersessuali subiscono un processo di ridefinizione così radicale da suscitare, in eguale misura, entusiasmo e scandalo. L’esempio più ovvio in tal senso rimane Paura di volare, il bestseller del 1973 di Erica Jong nel quale le vicende della protagonista, Isadora Wing, intimamente connesse al mondo della psicanalisi, approdano a una visione gioiosa e liberatoria del sesso tutta sostanziata nel termine, divenuto proverbiale, zipless fuck («scopata senza cerniera»).

Altri due esempi, distanziati di diversi anni uno dall’altro, sono riconducibili entrambi al nome di Mary McCarthy: il racconto (quasi) di esordio, «L’uomo con la camicia Brooks Brothers», pubblicato dalla Partisan Review nel 1941 e poi incluso nel libro Gli uomini della sua vita, e Il Gruppo, bestseller annunciato e pubblicato nel 1963, tra clamori, censure e sarcasmi tutti, o quasi, di parte maschile.
È però dal racconto del 1941 che è necessario partire, per comprendere l’impatto urticante che la scrittura di Mary McCarthy e il suo personaggio pubblico hanno avuto sull’intellighenzia maschile tra gli anni Quaranta e gli anni Sessanta del secolo scorso. Incentrato su un incontro di una notte tra la protagonista, Meg Sargent, e un commesso viaggiatore grasso e di mezza età, consumato nella carrozza di un treno, «L’uomo con la camicia Brooks Brothers» è in un certo senso il vero antesignano di «Cat Person», per il totale anti-romanticismo con il quale viene rappresentato il sesso e per la spietatezza dello sguardo rivolto a un mondo maschile percepito come fragile e inadeguato nella sua simulata arroganza. A distanza di anni dalla pubblicazione sulla Partisan Review, Pauline Kael – che sarebbe stata molto meno tenera con Il gruppo – avrebbe dichiarato:
Mary McCarthy è stata la vera eroina culturale della mia generazione. E mi sono resa conto di quanto siano cambiate le cose da allora quando ho visto la versione televisiva dell’«Uomo con la camicia Brooks Brothers». Nel ruolo della protagonista Elizabeth McGovern è pressoché perfetta, ma a mancare del tutto è l’importanza del racconto nel momento della sua pubblicazione. Negli anni Quaranta, quel testo fu l’epitome del coraggio. Tonificante. Era il racconto del quale tutte le persone più brillanti – soprattutto donne – parlavano, e con il quale si identificavano. La protagonista era una vera e propria eroina femminista, forte e sciocca al tempo stesso; non era ancora giunto il momento nel quale la scrittura femminista si sarebbe lasciata imbrigliare dal vittimismo.

E Alison Lurie, tra le scrittrici più popolari della generazione immediatamente successiva a quella di Mary McCarthy, avrebbe commentato:
Non è facile rendersi conto di quanto fosse scioccante questo racconto, al momento della pubblicazione. L’atteggiamento nei confronti degli uomini. Il fatto di poter avere una relazione con uno di loro per il puro gusto di farlo, e senza dover provare alcun senso di colpa.

Al tema «scandaloso» del racconto si accompagnava il sospetto – diffuso e probabilmente non immotivato – che nel commesso viaggiatore grasso e vagamente repellente la McCarthy avesse voluto ritrarre – in tralice – il suo secondo marito, Edmund Wilson, intellettuale, scrittore e critico che pure contribuì non poco a far pubblicare il testo. Una tendenza, questa del «ritratto in maschera», che rappresenta una costante nell’opera della scrittrice e che avrebbe trovato nei suoi due romanzi satirici L’oasi e I boschetti di Academe la propria forma più compiuta, non risparmiando né gli intellettuali «radical» che ruotavano attorno alla Partisan Review, nel primo, né il mondo di docenti universitari che aveva frequentato durante gli anni di docenza al Bard College, nel secondo.

È probabile che questa tendenza, alimentata da una penna spietata e da un umorismo corrosivo, abbia contribuito non poco a preparare il terreno per il fuoco di fila di attacchi e vendette incrociate che avrebbe accompagnato il clamoroso successo commerciale del Gruppo. Finché infatti i racconti e i romanzi della McCarthy si rivolgevano a una comunità ristretta di lettori, pronti a rintracciare nel proprio stesso vissuto e nel proprio giro di conoscenze dirette e indirette i bersagli di ogni allusione o richiamo, le provocazioni intellettuali che rappresentano il vero marchio di fabbrica dell’autrice potevano essere ricomprese all’interno di una sorta di «gioco di società». Meno tollerabile, e percepito quasi alla stregua di una caduta di gusto, che quella stessa vis polemica si allargasse a un affresco sociale di ampio respiro, nel quale la McCarthy prendeva le distanze dalla propria comunità intellettuale di riferimento e attingeva a piene mani al suo passato di studentessa d’eccezione nel prestigioso Vassar College, per trasporlo in una saga collettiva tutta al femminile.

Un progetto, quello del Gruppo, al quale Mary McCarthy aveva cominciato a lavorare nel 1952, e che avrebbe richiesto più di dieci anni per giungere alla sua forma definitiva. Lo scopo era stato chiaro fin da subito: prendere otto laureate della classe del 1933 e seguirle attraverso la Grande Depressione e la seconda guerra mondiale, spingendosi fino al dopoguerra e ai primi anni Cinquanta, segnati dalla «suburbanizzazione» del paese, dall’avvento della tv e dal maccartismo.

Nel 1953, a meno di un anno dall’avvio, il progetto fu messo temporaneamente da parte, ma la McCarthy vendette comunque il terzo e ultimo dei capitoli completati alla Partisan Review – chiudendo così il cerchio a dodici anni da «L’uomo con la camicia Brooks Brothers» – che lo pubblicò con il titolo «Dottie Makes an Honest Woman of Herself». Il capitolo, che si apre con il controverso incipit «Procurati un pessario», fece sensazione ancor più del racconto del 1941, e creò un’aspettativa così forte nei lettori da resistere negli anni e da scatenare un vero e proprio pressing sull’autrice da parte del New Yorker e della sua casa editrice, Harcourt, decisa a dire la sua e inserirsi di peso all’interno di quella che sembrava una nuova tendenza: l’ascesa al rango di bestseller di una serie di romanzi pubblicati da autori a forte vocazione letteraria, inaugurata nel 1955 da Lolita, di Nabokov, per culminare nel 1964 con Herzog, di Saul Bellow.
Per dare solo un’idea della popolarità e del succès de scandale dell’estratto, Philip Roth lo avrebbe citato espressamente in «Goodbye, Columbus», la novella del 1959 che apre l’omonima raccolta, vincitrice del National Book Award. Quando il narratore, Neil Klugman, chiede alla sua ragazza, Brenda, di procurarsi un diaframma, le spiega che sa quanto sia facile perché ha letto Mary McCarthy. E Brenda risponde: «Proprio così. È proprio come mi sentirei, come uno dei suoi personaggi».

Quando, all’inizio del 1963 e dopo un periodo di intenso lavoro, il libro raggiunse uno stadio abbastanza avanzato da poterne programmare l’uscita, il direttore editoriale di Harcourt, William Jovanovich, annunciò una prima tiratura di 50.000 copie per il romanzo, poi salite a 75.000; Il gruppo fu venduto in ventitré paesi, e i diritti cinematografici vennero acquistati per la somma impressionante di 162.500 dollari. Per la regia del film, dopo un iniziale interessamento di Otto Preminger, fu ingaggiato Sidney Lumet, che veniva da una lunga militanza televisiva, aveva da poco esordito sul grande schermo con l’eccellente La parola ai giurati, e nel corso della sua lunga carriera avrebbe firmato autentici capolavori come L’uomo del banco dei pegni, Serpico, Quel pomeriggio di un giorno da cani e Quinto potere. Pubblicato il 31 agosto 1963, il 22 settembre il romanzo aveva già raggiunto la terza posizione nella classifica del New York Times, e ai primi di ottobre sarebbe arrivato in vetta, con 95.000 copie in stampa.

Al successo di pubblico si accompagnarono, almeno in un primo tempo, reazioni critiche nel complesso favorevoli, anche se non entusiastiche né particolarmente acute o dettagliate. Sul New York Times, Arthur Mizener sottolineava come le otto protagoniste potessero sembrare grottesche a qualche lettore, ma «solo perché l’autrice, con chiarezza e senza ombra di sentimentalismi, ci consente di coglierne a fondo l’umana fragilità», mentre Granville Hicks, sulla Saturday Review, dichiarava:
Il gruppo è per molti aspetti un’opera ammirevole, e il miglior libro che Mary McCarthy abbia scritto. Probabilmente verrà ricordato più come un capitolo di storia sociale che come un romanzo, ma al di là della consueta ricchezza di osservazioni ha una qualità che non era scontato aspettarsi da quest’autrice in particolare: la compassione.

Ben presto cominciarono però a intravedersi i primi segnali di un’inversione di tendenza: Newsweek, per esempio, definiva il romanzo come «il genere di cosa che avrebbe potuto scrivere Rona Jaffe, se fosse dotata di un’istruzione migliore». Il primo attacco frontale fu lanciato da Norman Podhoretz, collaboratore quasi fisso della Partisan Review. Nella sua recensione al libro, pubblicata sulla rivista Show, Podhoretz affermava, tra l’altro:
Un critico di mia conoscenza, piuttosto cinico, una volta ha sottolineato che se agli scrittori di narrativa fosse proibito di indulgere in descrizioni elaborate di vestiti, mobilio e cibi – come alle matricole dei corsi di composizione è vietato l’uso di troppi aggettivi – l’intera tribù delle autrici contemporanee di romanzi si troverebbe istantaneamente senza lavoro. Non era un discorso privo di senso, gli ho risposto, ma Mary McCarthy, allora? Lei era sicuramente diversa, e molto migliore. Il critico ha sbuffato e ha detto: un’intellettuale in superficie e una descrittrice di mobili nell’anima. 

Se Podhoretz aveva aperto la strada, trasformando la solidità e la complessità intellettuale di Mary McCarthy in poco più di una patina, dietro la quale si nascondeva il descrittivismo esasperato che contrassegnava la variante contemporanea e femminile del roman de mœurs, il colpo più duro fu vibrato da Norman Mailer, il 17 ottobre 1963, sulla New York Times Book Review. Dopo un esordio nel quale prestava omaggio in tono di scherno «alla nostra santa, la nostra arbitra del gusto, la nostra protettrice, la nostra Gran Dama ed ereditiera, la nostra Giovanna D’Arco», Mailer annunciava senza mezzi termini che il nuovo romanzo di Mary McCarthy non era «abbastanza buono: anzi, neanche un po’»:
Semplicemente, Mary McCarthy non è abbastanza brava per scrivere un romanzo importante, o non ancora: ha fallito da cima a fondo, per colpa di tutta la vanità che ha accumulato in tanti anni di lodi non meritate, e che l’ha spinta ad accontentarsi di troppo poco.

In linea con quanto affermato da Podhoretz, anche Mailer rimproverava alla McCarthy di aver lasciato che una sovrabbondanza di dettagli soffocasse la trama principale, sottolineando come «la vera interrelazione su cui è costruito il romanzo è quella tra i personaggi e gli oggetti che li circondano». Il risultato, concludeva, era inevitabile: «Il gruppo è il miglior romanzo che i redattori delle riviste femminili abbiano mai concepito nei loro sogni più segreti». Il parallelismo tra le recensioni di Podhoretz e Mailer appare evidente, e ruota attorno a due considerazioni legate a doppio filo una all’altra: se Il gruppo è un fallimento, la ragione va rintracciata in un descrittivismo esasperato e compiaciuto, che porterebbe allo scoperto la vera anima dell’autrice. È come se, avendo rinunciato alla formula del roman à clef e avendo posto al centro delle sue storie donne comuni della borghesia americana, la McCarthy avesse rivelato la natura tutta superficiale del suo intellettualismo e si fosse consegnata alla sua vera categoria di appartenenza: quella delle scrittrici per signore, eredi sbiadite del romanzo ottocentesco e lontane dal modernismo muscolare e maschile del quale i nuovi maestri, da Bellow allo stesso Mailer, erano strenui sostenitori. Il sessismo e la brutalità di queste letture critiche sono così evidenti da non richiedere particolari commenti, e nel caso di Mailer, più che da ipotetici risentimenti personali, è probabile fossero dettati soprattutto dall’invidia per un successo di pubblico che non conosceva soste, e che avrebbe assicurato al romanzo una permanenza di due anni nella classifica dei bestseller, seguita da un nuovo picco di vendite grazie al film di Lumet, uscito nelle sale nel 1966.

Eppure, proprio nel soffermarsi sul descrittivismo a tratti esasperato del romanzo, i due detrattori hanno toccato un punto essenziale per la comprensione del progetto narrativo dal quale Mary McCarthy aveva preso le mosse. Come la stessa autrice avrebbe dichiarato in un’intervista rilasciata alla Paris Review,
Il romanzo era incentrato sull’idea di progresso vista all’interno della sfera femminile. Insomma, l’economia domestica, l’architettura, le tecnologie per la casa, la contraccezione, il parto: lo studio della tecnologia in casa, nel box per neonati, a letto.

Il piano consisteva in particolare nel mostrare una graduale «perdita di fiducia» nell’intera nozione di progresso, attraverso le vicende di otto ragazze del Vassar, tutte destinate a veder crollare i propri sogni. A complicare ulteriormente le cose, la McCarthy era perfettamente consapevole che «queste ragazze sono figure essenzialmente comiche, ed è molto difficile far sì che nelle loro vite accada qualcosa di davvero importante. In realtà, non conoscono sviluppo».
Nel Gruppo, la presenza ossessiva degli oggetti, a cominciare dal controverso «pessario» del terzo capitolo, non serve ad alimentare una tendenza da «romanzo per signore», bensì a trasporre con altri mezzi e in un contesto più ampio quella «narrativa di idee» che McCarthy aveva cominciato a praticare fin dagli esordi. Il vero centro del libro sta nell’assenza di sviluppo umano contrapposta all’accumularsi di nuove tecnologie; nel progressivo svincolamento delle «cose» dalla loro destinazione d’uso, nella loro trasformazione in feticci e nel successivo, inevitabile svuotamento di senso. Costretta a confrontarsi con personaggi che non possono conoscere sviluppo, l’autrice ne sviscera le prassi quotidiane e il matrimonio infelice con il benessere, e i suoi interni borghesi, affrancati da ogni logica ottocentesca, girano pericolosamente a vuoto fino ad assumere una forza grottesca e survoltata che ha qualcosa di quasi beckettiano. Un accostamento che potrà sembrare ardito, in una scrittrice formatasi alla solida scuola di Rebecca West e sulle pagine di maestri dell’Ottocento come Dickens o Flaubert, ma che trova un suo preciso riscontro in un episodio risalente al 1962, l’anno che precede l’uscita del Gruppo. Invitata al Festival di Edimburgo, Mary McCarthy, come ricordato in una lettera di Janet Flanner, presente all’evento, ebbe modo di dimostrare quanto fosse vicina alle nuove tendenze del romanzo:
Dichiarò che Pasto nudo, opera di un certo Burroughs del quale non ho mai sentito parlare, e Lolita sono i libri più importanti del secolo.

Sempre a Edimburgo, durante un intervento a una tavola rotonda, la McCarthy tornò su Pasto nudo sottolineando come, a suo avviso, condividesse alcune delle qualità dell’«Action Painting» e si potesse considerare un vero e proprio «action novel». Questa attenzione al nuovo e a una letteratura in grado di ridefinire i confini delle narrazioni dovrebbe quantomeno indurre a rileggere Il gruppo, accettando il rischio concreto che i difetti individuati dai suoi più feroci detrattori coincidano, oggi, con le sue vere e più profetiche virtù.

In evidenza