Intervista a Giorgio Vasta su Il tempo materiale (Minimum Fax)

Intervista a Giorgio Vasta su Il tempo materiale (Minimum Fax)

A cura di Silvia Costantino

In Il tempo materiale si parla di terrorismo attraverso un meccanismo narrativo originale e straniante - la storia di un gruppo di ragazzini che fondano una cellula terroristica a imitazione delle Brigate Rosse. Lo straniamento è raddoppiato dal fatto che i ragazzini pensano e parlano come degli adulti. Perché questa scelta stilistica? E perché questo tema?

Una precisazione riguardo alla questione della scelta. Leggendo un romanzo si può supporre che tutto quello che è finito al suo interno sia perfettamente noto all’autore. Pur cercando di fare in modo che ogni pagina sia il risultato di una decisione consapevole, mi sono reso conto che non necessariamente questo è quello che succede. Dentro un romanzo finiscono anche azioni che sono solo in parte note a chi quel romanzo lo ha scritto, azioni di cui si diventa consapevoli man mano che si va avanti, che magari vengono evidenziate dalla lettura che gli altri fanno del libro. Tutto questo per dire che la forma ultima della storia che si racconta non coincide per forza con una piena intenzionalità e che la lettura degli altri agisce come un marcatore dei materiali, intenzionali e preterintenzionali, confluiti nel testo.

Lo scarto tra l’età anagrafica di Nimbo, undici anni, e la sua lucidità percettiva e cognitiva dipende da una necessità concreta. Prima di tutto mi interessava costruire una lingua, darle forma, metterla a punto e farne uno strumento (non necessariamente uno strumento abile, anzi credo che alla fine questo strumento – che Nimbo idolatra e detesta – si riveli di fatto incapace); individuata questa lingua mi sono accorto che il personaggio che avevo in mente – appunto un undicenne – sarebbe risultato inadeguato, incompatibile con quelle strutture espressive. Era un po’ come versare un liquido che normalmente sta in un determinato contenitore all’interno di un contenitore non canonico: la Coca-Cola dentro una damigiana, la benzina dentro una bottiglia di spumante. A quel punto, con la vaga consapevolezza di forzare un meccanismo di verosimiglianza, ho deciso di andare avanti in questo modo; è chiaro che questa forzatura impone a chi legge una disponibilità che non necessariamente verrà accordata, ma è proprio nel rischio che questa disponibilità non ci sia, e nella curiosità nei confronti delle conseguenze di questo eventuale patto, che secondo me sta un po’ del senso della scrittura e della lettura.

Per quanto riguarda il tema, i cosiddetti anni ’70, senza scadere a generico pretesto, sono perlopiù da intendere come un telaio storico utile a suggerire un’atmosfera, e a usarla. Mi interessava un tempo percepito come tensione, un tempo sovraffollato di azioni e interpretazioni che però resisteva nella sua indecifrabilità. Inoltre, se stiamo al punto di vista strettamente testimoniale (quello di chi può affermare “Ho fatto gli anni ’70”), io di questo feticcio degli anni ’70 non dovrei parlare perché li ho attraversati da bambino, assorbendoli senza però poterne avere un’idea formalizzata. Questo limite, del quale scrivendo ero consapevole, è secondo me fertile perché è ancora un altro modo per articolare l’inadeguatezza, la pretesa (disperata e orgogliosa) di esserci pur non essendoci stati o essendoci stati in un modo parziale. In questo senso la letteratura è il luogo nel quale ci si fa carico di tutto il tempo, indipendentemente dal criterio della testimonianza diretta, così come ci si assume la responsabilità di tutti i luoghi, anche di quelli in cui non si è mai stati e in cui probabilmente non si riuscirà mai ad andare. Anche dei tempi e dei luoghi che non ci sono, e che ci sono anche se non ci saranno.

Il suo romanzo è ambientato a Palermo. È solo una scelta autobiografica? Gianni Biondillo parla di “periferia d'Italia”, riferendosi ad un decentramento non solo fisico, ma anche mentale.

Palermo, all’inizio della scrittura, era una condizione, un vincolo al quale dare forma e senso. Al di là del valore che a questa città viene attribuito nel romanzo – una periferia geografica che si somma a una periferia anagrafica – per me era utile poter usare un luogo con il quale ho un legame animale. Un legame quasi tutto in negativo, nel quale il senso di minaccia e di allerta predomina su quelle sporadiche particelle di tenerezza che pure a volte si generano. Palermo, coincidendo biograficamente con la mia origine, è un conto aperto, un’operazione irrisolta e irrisolvibile. È “casa” – nella misura in cui “casa” non è obbligatoriamente un luogo piacevole – perché è al contempo uno spazio fisico e un fantasma. Mettere in scena Palermo è stato un modo per compiere un processo di risignificazione dello spazio e del tempo, un tornare sul luogo del delitto – considerato che ogni origine è in un certo modo “delitto” – per dare coesione e senso a qualcosa che persisteva soprattutto in forma di caos molecolare. Una specie di passaggio di stato, insomma.

Sempre riguardo Palermo: parlando del tuo prossimo romanzo hai detto che stai tentando di prelevare un campione di realtà normale (carotaggio) per ottenere uno spaccato della realtà italiana generale (sineddoche); e d’altra parte hai ribadito di non voler fare della sociologia, ma di voler narrare. Quali differenze fondamentali individui fra questi due ambiti?

Questo secondo libro, Spaesamento, è di nuovo “palermitano” ed è probabilmente l’ultimo che decido di ambientare in quella città, almeno nei termini in cui è successo finora (anche perché si tratta di accumulare tentativi di comprensione, tentativi di forma, sapendo che tutti questi tentativi falliranno e che il conto rimarrà se non del tutto spalancato sicuramente aperto).

Non sono neanche sicuro che Spaesamento sia un romanzo, preferisco non pormi il problema di sapere cosa sia. Certo, se pensiamo al romanzo come a una struttura elastica di ottimo appetito (probabilmente onnivora) assimilabile a una specie di ventre di balena – ovvero a un luogo dove, con Giona e Pinocchio, è possibile trovare di tutto – allora Spaesamento può essere considerato un romanzo. Ma, al di là della sua iscrizione in uno o in un altro registro, il principio è quello di collegare un’azione letteraria a un criterio che appartiene a un ambito del tutto diverso (laddove, ancora una volta, se la prospettiva è letteraria non esiste mai un “del tutto diverso”). Il carotaggio – una pratica della geologia cui si ricorre per accertare tramite un principio induttivo la natura di un terreno – è ciò che innesca la storia. Se anche una biopsia o un prelievo di sangue sono dei carotaggi, allora è forse possibile compiere attraverso sguardo e linguaggio un “prelievo” di realtà italiana, usando come campione tre giorni alla fine dell’estate e un luogo particolare, appunto Palermo. Una parte spaziotemporale funzionale a leggere il tutto: l’Italia di questi ultimi e dei prossimi anni.

Riguardo alla sociologia, la mia impressione è che ogni narrazione, nel fare ricorso a una serie di strumenti e di contesti, può avere l’ambizione di trascenderli. Provo a spiegarmi meglio: scrivendo una storia ci si può trovare ad attraversare dimensioni che hanno a che fare, mettiamo, con la politica, con la psicologia, con la sociologia, con la decifrazione di quelli che sono gli emblemi, le icone se non addirittura gli idoli della contemporaneità. Fin qui tutto bene, fa parte del gioco. Ma se la letteratura può essere davvero una scienza di qualcosa che più o meno precisamente possiamo chiamare “l’umano”, questo dovrebbe comportare il sistematico sfondamento delle dimensioni suddette: sfondare queste membrane facendo in modo che il discorso letterario riguardi sempre le cose ultime, senza mai accontentarsi della dimensione psicologica, di quella sociale e generazionale – senza accontentarsi cioè di qualcosa che sia soltanto un romanzo su genitori e figli, sul degrado delle città e così via (perché queste dimensioni sono mezzi e non sono il fine).

In altri termini, secondo me, il discorso letterario dovrebbe essere un tentativo che ha per oggetto (oltre che per soggetto) l’umano. Il mio desiderio, scrivendo, è di riuscire a compiere questo tentativo in modo intenso e leale, provando a urtare e a irritare queste membrane, a perforarle un poco. Ragionare attraverso Palermo sull’Italia vuole essere allora una maniera per ragionare sull’umano italiano, partendo dall’idea che oggi italiano è una manifestazione dell’umano, il modo in cui sinteticamente indichiamo uno specifico grumo storicoculturale. Quando parliamo dell’italiano, nella maggior parte dei casi non ci riferiamo a una declinazione dell’umano virtuosa o almeno tollerabile ma a una specie di mostro etico ed estetico che scegliamo di compendiare in un termine. Una mia amica, Francesca Serafini, mi ha fatto notare che nel momento in cui discutiamo dell’italiano – inteso come mostro etico-estetico – usando la scrittura, gli opponiamo un’altra accezione del termine “italiano”, vale a dire la nostra lingua. È probabile che nella frizione tra queste due accezioni – un modo di esistere, adesso, in questo paese, e la lingua italiana – si riesca a generare una anche microscopica scintilla: non necessariamente da intendere come segno della conoscenza, più probabilmente come manifestazione di un dolore.

Il tempo materiale è stato pubblicato da una casa editrice di medie dimensioni (minimum fax) e ha avuto una circolazione notevole benché non fosse sostenuto da un apparato pubblicitario paragonabile a quello di cui dispongono le grandi case editrici. Che cosa pensi dell’industria culturale oggi? Le classifiche di qualità come quelle del Dedalus-Pordenonelegge possono effettivamente servire, avere un’influenza sull’industria e sul panorama culturale italiano?

Pur trascorrendo molto tempo leggendo, e dunque facendo attenzione a cosa viene pubblicato, mi sono accorto che devo ogni giorno assumermi la responsabilità di cercare attivamente le scritture che possono essermi più utili (mi riferisco a tutte quelle scritture, nella maggior parte dei casi potenti e sottilissime, che non essendo trasportate dall’onda del circuito mainstream vanno incontrate in un altro modo). Ugualmente, nonostante tutta l’attenzione, ci sono scritture che, per distrazione o per mio scarso intuito, mi sfuggono. Da un anno a questa parte le classifiche Dedalus-Pordenonelegge sono diventate un ulteriore strumento per mettermi in cerca delle scritture che possono interessarmi. Se è probabile che conosca i libri che si trovano nelle primissime posizioni, è altrettanto probabile che nelle posizioni successive ci siano titoli dei quali non mi ero accorto, libri che cercherò in libreria o in rete e che farò in modo di avere tra le mani. Le classifiche servono dunque a mettere nero su bianco quelli che – a causa del darwinismo intrinseco a una proposta editoriale mainstream che in una determinata unità di tempo rende percepibili soltanto un numero limitato di titoli – sono i libri che potrebbero andare smarriti.

Ma il valore di queste classifiche penso sia anche un altro. Il semplice proporre un’alternativa al criterio di classificazione quantitativo chiarisce che il mercato editoriale italiano è un organismo molto più articolato e complesso di quanto potrebbe sembrare; un organismo da non demonizzare e da non idealizzare ma da studiare e comprendere nelle sue manifestazioni. Un criterio di classificazione alternativo chiarisce soprattutto che non ci sono “dati di fatto” bensì scelte di prospettiva delle quali ognuno di noi è responsabile. Voglio dire che se ogni lettore accettasse fino in fondo di essere “autore” della propria intelligenza, della propria cultura, della propria curiosità, della propria capacità di muoversi criticamente dentro la macchina editoriale italiana, allora comincerebbe a giocare un ruolo attivo e si riconoscerebbe alla lettura (e a ogni lettore) la capacità eversiva che in potenza possiede. Si tratta prima di tutto di rivendicare la complessità come un diritto e come una ragione di orgoglio. Se la proposta editoriale mainstream tende spesso alla protervia, da lettore ho il diritto e il dovere di essere sempre più attento a ciò che accade nei libri (devo essere consapevole delle retoriche messe in atto in una narrazione) e tra i libri (devo essere consapevole delle retoriche messe in atto quando si parla dei libri, quando li si descrive e li si vende). Ho il diritto e il dovere, appunto, di essere autore. E con questo provo a rispondere anche alla prima parte della domanda. Se dilatiamo il senso di ciò che intendiamo per autorialità scopriamo che chi scrive un libro, oltre a pretendere di essere responsabile delle scelte che riguardano la mobilitazione di un lessico, di una sintassi e di una serie di retoriche, può essere anche responsabile delle sue scelte editoriali. Responsabile della sua collocazione e della sua esistenza (e anche delle contraddizioni intrinseche alle varie collocazioni e alle varie esistenze).

Per esempio è possibile essere consapevoli di cosa voglia dire avere pubblicato un libro per minimum fax e avere serenamente e consapevolmente deciso di rimanervi. Il rischio che subito fa capolino, qui, è il donchisciottismo, anche quello involontario. Ragionando al netto di qualunque idealismo ingenuamente bellicoso ci si può rendere conto che si deve essere il più possibile consapevoli dei contesti, delle risorse e dei limiti dei contesti, del gioco e della candela; si deve comprendere che cosa può voler dire pubblicare un libro presso un editore che ha mezzi commerciali e di diffusione inferiori a quelli di altre case editrici e pensare che questo abbia un senso e un valore, ancorché poco o per nulla percepibili dalla maggior parte dei lettori (ma ha anche senso e valore avere fiducia in lettori attenti e consapevoli, critici, sottili e coraggiosi). Senza esasperazioni serve riflettere sul fatto che ogni nostra scelta è inevitabilmente politica e ha a che fare con un’idea di mondo.

STAMPA QUESTA PAGINA