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Nel dicembre 2009 è caduto l'ottantesimo anniversario della nascita di Chet Baker. Nella rubrica Déjà lu, per gentile concessione degli autori e dell'editore, riproponiamo i due interventi di Paolo Fresu ed Enrico Rava apparsi in appendice al libro di Chet Baker “Come se avessi le ali. Le memorie perdute”, edito nel luglio 2009 da minimum fax nella collana “I Quindici” a cura di Marco di Gennaro.
Los Angeles, 16 agosto 1952. Il quartetto di Gerry Mulligan registra “Bernie's Tune” e “Lullaby of the Leaves”. È l'inizio
di una storia che durerà solo un anno ma avrà un impatto quasi senza precedenti sulla comunità jazzistica. Nel giro di
pochi mesi i dischi del Gerry Mulligan Quartet saliranno in testa alle classifiche di vendita e faranno trionfare il
gruppo come uno dei più popolari del momento. Il quartetto comprende Chico Hamilton alla batteria, Bob Whitlock al basso,
sostituiti in un secondo tempo da Larry Bunker e Carson Smith, e alla tromba c'è un giovanotto dell'Oklahoma
completamente sconosciuto che si rivela l'asso vincente della band: Chesney “Chet” Baker, che in un paio d'anni diventerà
uno dei musicisti di jazz più amati al mondo.
Chet viene fermato per droga e di conseguenza i produttori hollywoodiani lo scaricano e prendono Robert Wagner al suo
posto, la polizia comincia a rendergli la vita difficile creandogli problemi anche coi proprietari di club. Decide quindi
di cambiare aria. Forma un quartetto con un giovane e originalissimo pianista, Dick Twardzik, con Peter Littman alla batteria
e Jimmy Bond al basso. La musica che fanno è molto diversa da quella dei suoi gruppi precedenti. Quasi tutte composizioni
originali di Bob Zieff, autore anomalo visionario. Linee melodiche oblique con una logica inusuale, giri armonici che vanno
dove uno meno se l'aspetta. Insomma, qualcosa di molto forte, che non regala niente a nessuno e che dà un'immagine nuova
di Chet, molto lontana da quella del trombettista-cantante idolo delle teenager. I quattro partono per l'Europa.
Sembra di nuovo in gran forma. Forse tutto ripartirà. Invece niente. Si ritrova a fare una serie di dischi abbastanza inutili
per la Riverside, dove tentano di farne risaltare il lato più mieloso e commerciale. A volte si sente il Chet dei tempi
migliori, a volte si sente un Chet abulico salvato solo da quel suo suono straordinario. Un disco non male: Chet in New
York, con Johnny Griffin, Al Haig, Paul Chambers e Philly Joe Jones, come dire il meglio del meglio, ma lui sembra
quasi intimidito, il labbro non tiene, le idee non scorrono. L'eroina ha cominciato a compiere la sua opera distruttrice e
gli ha fatto perdere quella straordinaria agilità che gli permetteva di riprodurre con lo strumento qualunque frase gli
venisse in mente. Infine un disco imbarazzante, con Stan Getz, dove accanto a un Getz brillantissimo come sempre troviamo
un Chet ridotto a una larva che, raccontano i testimoni, si addormenta per terra tra un assolo e l'altro.
Quindi il lavoro arrivava a valanga. Chet era finalmente pulito, lucido, fisicamente perfetto, con un ritrovato controllo
dello strumento come negli anni d'oro, anzi con un pizzico di energia in più. Ed è a questo punto che la mia vita comincia
a intrecciarsi timidamente con la sua. Si dà il caso infatti che Franco Mondini fosse uno dei miei migliori amici, per cui
quando nei giorni di riposo Baker si fermava a casa sua a Torino, che è la mia città, io mi ci fiondavo e stavo a guardare
il mio idolo da vicino, cercando inutilmente di formulare non dico un discorso ma perlomeno delle parole che avessero una
parvenza di sensatezza. Ogni volta che ne avevo la possibilità andavo a sentirlo suonare e ogni volta era un'esperienza
indimenticabile, perché Chet riusciva a dare un senso ad ogni nota che suonava e riusciva a mettere se stesso in
ogni suo assolo, sempre e comunque.
Forse sei mesi, forse meno dura questo periodo, poi l'inferno ricomincia. Dal Belgio arrivano due grandissimi, il sassofonista
Bobby Jaspar e il chitarrista René Thomas. Padri storici del jazz moderno europeo, ma purtroppo anche loro tossici persi. Si
uniscono al gruppo che a questo punto con tre fiati e una chitarra diventa sempre più difficile da gestire musicalmente. La
situazione precipita, il gruppo si scioglie. Chet viene arrestato nuovamente in Germania ed espulso dal paese. In Italia
non può ritornare per una serie di problemi, tra cui alcune cambiali non pagate. Quando arriva a Parigi i musicisti gli
fanno il vuoto intorno: Chet infatti è diventato una celebrità presso le polizie di tutto il mondo. I posti dove arriva
cominciano a pullulare di poliziotti, gli spacciatori non possono più lavorare, i musicisti spariscono per non avere anche
loro noie con i cops.
Ed è qui che le nostre vite si intrecciano nuovamente. Infatti mi ero trasferito a New York nel '67 e un bel giorno sul giornale ecco la pubblicità dell'Half Note: “Chet Is Back”. Quella sera mi precipito al locale. Le luci sono basse, rossastre, lo vedo da lontano... Sì, è proprio lui, uguale identico, mi avvicino, mi riconosce, un abbraccio, mi chiede di Franco, lo guardo bene. Sembra come nel Tempo ritrovato di Proust, quando l'io narrante, dopo anni che non frequenta la società e gli amici di un tempo, si presenta a una festa e per un attimo crede si tratti di una festa mascherata: infatti tutti i suoi amici hanno i volti ricoperti da maschere grottesche che ne alterano le fisionomie pur mantenendo le caratteristiche originali. E invece è solo il lavoro del tempo sui loro volti. E questo è Chet, quella sera, quando lo guardo da vicino. Il suo volto bellissimo è ancora lì, nascosto da una rete fittissima di rughe, come il volto di un vecchio capo indiano, gli occhi sono stanchi, sono occhi che hanno visto troppo orrore. Ho un attimo di smarrimento, mi sforzo per non piangere. Anche perché Chet non è un vecchio capo indiano. È un giovane uomo di quarantaquattro anni. Comunque la serata va avanti. Mi invita a suonare. Ci sono Mel Lewis alla batteria e Phil Urso al sax. Non ricordo gli altri. Ricordo però che suoniamo “Stella by Starlight” e “Stablemates”. Cose che non si dimenticano.
Da allora lo vedo spesso anche perché abbiamo lo stesso manager, un personaggio curioso mezzo indiano che arrotonda facendo
il dealer. Mi capita di sostituirlo in qualche occasione o di incontrarlo a casa di Jack (il manager-dealer).
Quando il labbro non ce la fa (ogni tanto ha degli herpes che lo fanno
soffrire moltissimo) improvvisa con la voce. Ed
è qualcosa di fantastico. Nessuno, dico nessuno, ha mai fatto uno scat
come il suo. Lo incontro al Festival di Pori in
Finlandia. Suoniamo la stessa sera nello stesso teatro, per cui andiamo
insieme in taxi. Mi fa vedere una gamba: è ricoperta
di piaghe. La settimana precedente, mi racconta (ma io lo sapevo già),
è stato in coma in Canada. Sembrava se ne
andasse. Invece è già qui, in Finlandia, a fare l'unica cosa che ama
veramente, oltre alla droga. Mi dice di essere stanco, stanco
da morire, di soffrire tantissimo fisicamente, di non farcela più a
vivere. Poi, un paio d'ore dopo, fa uno dei più
bei concerti che io abbia mai sentito. Mi commuovo ancora al ricordo.
Dopo il concerto ci vediamo di nuovo, è felice, rilassato,
ha voglia di suonare ancora, ha sentito che il labbro rispondeva, e
anche le dita, e i riflessi e la magia erano con lui.
L'ultima volta che l'ho visto è stata nell'88. Abbiamo suonato insieme a Torino, in un Teatro Carignano gremito all'inverosimile. C'era anche Joe Henderson. A cena dopo il concerto mi diceva di essere molto felice perché aveva dato un acconto per l'affitto di una bella casa vicino a Parigi dove l'avrebbe raggiunto la sua ragazza. Le cose stavano andando bene e per la prima volta da decenni avrebbe avuto un indirizzo stabile. Non l'avrei mai più visto. Il 13 maggio 1988 stavo suonando in un club a Parigi. Durante l'intervallo un amico mi ha detto che Chet era volato giù da una finestra d'albergo ad Amsterdam ed era morto sul colpo. Come non avesse le ali.
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