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Ricordo di Chet Baker by Rava. Con la magia in tasca.


By Enrico Rava

Nel dicembre 2009 è caduto l'ottantesimo anniversario della nascita di Chet Baker. Nella rubrica Déjà lu, per gentile concessione degli autori e dell'editore, riproponiamo i due interventi di Paolo Fresu ed Enrico Rava apparsi in appendice al libro di Chet Baker “Come se avessi le ali. Le memorie perdute”, edito nel luglio 2009 da minimum fax nella collana “I Quindici” a cura di Marco di Gennaro.

Los Angeles, 16 agosto 1952. Il quartetto di Gerry Mulligan registra “Bernie's Tune” e “Lullaby of the Leaves”. È l'inizio di una storia che durerà solo un anno ma avrà un impatto quasi senza precedenti sulla comunità jazzistica. Nel giro di pochi mesi i dischi del Gerry Mulligan Quartet saliranno in testa alle classifiche di vendita e faranno trionfare il gruppo come uno dei più popolari del momento. Il quartetto comprende Chico Hamilton alla batteria, Bob Whitlock al basso, sostituiti in un secondo tempo da Larry Bunker e Carson Smith, e alla tromba c'è un giovanotto dell'Oklahoma completamente sconosciuto che si rivela l'asso vincente della band: Chesney “Chet” Baker, che in un paio d'anni diventerà uno dei musicisti di jazz più amati al mondo.
Nel '54 vince il referendum di Down Beat davanti a personaggi come Miles, Gillespie e Clifford Brown. Col proprio quartetto, con Russ Freman al piano, formato immediatamente dopo il distacco da Mulligan, incide una serie di dischi strepitosi e comincia a registrare anche come cantante, rivelando una voce adolescenziale affascinante e pura. La sua popolarità aumenta enormemente grazie anche al suo aspetto fisico. Quella sua faccia da attore, dolce e dura allo stesso tempo, un po' James Dean, un po' Elvis, così in linea con la moda del tempo, interessa Hollywood che gli propone una parte da protagonista in un film.
Sembra veramente che gli dèi siano dalla sua parte. Suona meravigliosamente bene, ha un fraseggio originalissimo, uno dei più bei suoni di tromba che si siano mai sentiti, un timing perfetto. Le donne impazziscono per lui, guida come un pilota di Formula Uno, se gioca a carte vince sempre, ha dei riflessi rapidissimi che gli permettono di non sbagliare un colpo, sembra essere la quintessenza dello “hip”. Quello che si dice un vincente. Il futuro si annuncia, viva la banalità, radioso. Fine della favola.

Chet viene fermato per droga e di conseguenza i produttori hollywoodiani lo scaricano e prendono Robert Wagner al suo posto, la polizia comincia a rendergli la vita difficile creandogli problemi anche coi proprietari di club. Decide quindi di cambiare aria. Forma un quartetto con un giovane e originalissimo pianista, Dick Twardzik, con Peter Littman alla batteria e Jimmy Bond al basso. La musica che fanno è molto diversa da quella dei suoi gruppi precedenti. Quasi tutte composizioni originali di Bob Zieff, autore anomalo visionario. Linee melodiche oblique con una logica inusuale, giri armonici che vanno dove uno meno se l'aspetta. Insomma, qualcosa di molto forte, che non regala niente a nessuno e che dà un'immagine nuova di Chet, molto lontana da quella del trombettista-cantante idolo delle teenager. I quattro partono per l'Europa.
Incomincia bene. Successo a Parigi. Il 4 ottobre 1955 alla Salle Pleyel, poi l'11 ottobre in sala d'incisione, qualche concerto in Germania e infine di nuovo Parigi per un'altra seduta d'incisione. Le cose sembrano andare di nuovo alla grande quando, il 21 ottobre, Dick Twardzik non si presenta in studio. Lo trovano nella sua camera d'albergo, ucciso da un'overdose. E da questo momento inizia la vera e propria discesa all'inferno di Chet Baker. La morte dell'amico colpisce duro, il suo vizio gli chiede un tributo sempre maggiore. Littman e Bond tornano in America. Lui gira l'Europa con musicisti locali a volte buoni e a volte no. Il bisogno di reperire droga è sempre più urgente e diventa la sua preoccupazione principale. Comincia a essere conosciuto dalle polizie di tutta Europa, fa una serie di dischi pessimi dove solo in alcuni momenti riesce a far brillare il suo genio. Finalmente riesce a uscire da questo pantano e torna negli Stati Uniti. Lo ritroviamo in California alla testa di un ottimo quintetto con i ritrovati Bond e Littman, con Phil Urso al sax e il grande Bobby Timmons al piano. Ne esce un disco molto bello, secondo me uno dei suoi migliori: Chet Baker & Crew. Un paio di dischi da ricordare con Art Pepper. Nel 1957: di nuovo con Mulligan, un buon disco: Reunion.

Sembra di nuovo in gran forma. Forse tutto ripartirà. Invece niente. Si ritrova a fare una serie di dischi abbastanza inutili per la Riverside, dove tentano di farne risaltare il lato più mieloso e commerciale. A volte si sente il Chet dei tempi migliori, a volte si sente un Chet abulico salvato solo da quel suo suono straordinario. Un disco non male: Chet in New York, con Johnny Griffin, Al Haig, Paul Chambers e Philly Joe Jones, come dire il meglio del meglio, ma lui sembra quasi intimidito, il labbro non tiene, le idee non scorrono. L'eroina ha cominciato a compiere la sua opera distruttrice e gli ha fatto perdere quella straordinaria agilità che gli permetteva di riprodurre con lo strumento qualunque frase gli venisse in mente. Infine un disco imbarazzante, con Stan Getz, dove accanto a un Getz brillantissimo come sempre troviamo un Chet ridotto a una larva che, raccontano i testimoni, si addormenta per terra tra un assolo e l'altro.
Dopo un nuovo arresto che lo porta in prigione a Rikers Island, lo troviamo a Milano alla Taverna Messicana con alcuni dei migliori italiani. È il 1959. Sono passati solo sette anni dal suo esordio, sembra una vita intera. Arrestato a più riprese in Germania, viene poi arrestato anche in Italia e passerà più di un anno in carcere a Lucca, non senza aver provocato una serie di drammi intorno a sé, tra cui il suicidio di un medico per una storia di ricette false. Il periodo in galera comunque gli fa bene. Si disintossica completamente, studia lo strumento, impara l'italiano, scrive una serie di brani di cui purtroppo si sa poco o nulla, programma il suo futuro, contatta i musicisti con cui vorrebbe formare un nuovo gruppo non appena uscirà da lì dentro.
Infatti quando esce trova i musicisti pronti. Franco Mondini alla batteria, Giovanni Tommaso al basso, Amedeo Tommasi al piano, Antonello Vannucchi al vibrafono. Qualche settimana più tardi arriverà da Liegi il sassofonista Jacques Pelzer per unirsi a loro. Il processo in seguito al quale Chet era stato condannato un anno prima aveva causato un polverone sia a causa delle due bellissime donne che se lo contendevano, la moglie Halema e l'amante (e in seguito moglie) Carol, le cui foto campeggiavano su tutti i rotocalchi dell'epoca, sia per i vip della zona Lucca-Viareggio coinvolti nel giro di ricette false e droga. Insomma Baker in Italia, uscito dal carcere di Lucca, era diventato un personaggio da rotocalco, tallonato quotidianamente da paparazzi e affini.

Quindi il lavoro arrivava a valanga. Chet era finalmente pulito, lucido, fisicamente perfetto, con un ritrovato controllo dello strumento come negli anni d'oro, anzi con un pizzico di energia in più. Ed è a questo punto che la mia vita comincia a intrecciarsi timidamente con la sua. Si dà il caso infatti che Franco Mondini fosse uno dei miei migliori amici, per cui quando nei giorni di riposo Baker si fermava a casa sua a Torino, che è la mia città, io mi ci fiondavo e stavo a guardare il mio idolo da vicino, cercando inutilmente di formulare non dico un discorso ma perlomeno delle parole che avessero una parvenza di sensatezza. Ogni volta che ne avevo la possibilità andavo a sentirlo suonare e ogni volta era un'esperienza indimenticabile, perché Chet riusciva a dare un senso ad ogni nota che suonava e riusciva a mettere se stesso in ogni suo assolo, sempre e comunque.
Io avevo cominciato a pasticciare con la tromba circa tre anni prima ma non me la cavavo per niente male, avevo già fatto un 45 giri e cominciavo a suonare a livello dilettantistico in vari locali della città. Quindi stare vicino a questo grandissimo, ascoltarlo e vederlo suonare, sentirlo parlare con quella sua voce da adolescente così musicale, e soprattutto averlo conosciuto in uno dei pochissimi periodi della sua vita in cui riusciva a tenersi lontano dalla roba, è stata un'esperienza che mi ha segnato in modo importante, è stato come andare a scuola e fare cinque anni in uno.

Forse sei mesi, forse meno dura questo periodo, poi l'inferno ricomincia. Dal Belgio arrivano due grandissimi, il sassofonista Bobby Jaspar e il chitarrista René Thomas. Padri storici del jazz moderno europeo, ma purtroppo anche loro tossici persi. Si uniscono al gruppo che a questo punto con tre fiati e una chitarra diventa sempre più difficile da gestire musicalmente. La situazione precipita, il gruppo si scioglie. Chet viene arrestato nuovamente in Germania ed espulso dal paese. In Italia non può ritornare per una serie di problemi, tra cui alcune cambiali non pagate. Quando arriva a Parigi i musicisti gli fanno il vuoto intorno: Chet infatti è diventato una celebrità presso le polizie di tutto il mondo. I posti dove arriva cominciano a pullulare di poliziotti, gli spacciatori non possono più lavorare, i musicisti spariscono per non avere anche loro noie con i cops.
Così di male in peggio, con delle piccole parentesi di buona musica, si trascina avanti e indietro tra Europa e Stati Uniti, riuscendo solo raramente a fare cose memorabili, fino a quando nel '68, a San Francisco, in circostanze abbastanza oscure (ma non troppo), gli fratturano la mascella e gli fanno perdere quasi tutti i denti. Ed è il silenzio. La Martin di Chet non suona più. Tre anni di silenzio totale. Lavora in una stazione di servizio sedici ore al giorno. Poi lentamente riapprende a suonare con una dentiera piuttosto instabile e solo nel '73, grazie anche all'aiuto di Gillespie che gli trova qualche ingaggio in particolare all'Half Note di New York, comincia il suo lento ritorno sulla scena.

Ed è qui che le nostre vite si intrecciano nuovamente. Infatti mi ero trasferito a New York nel '67 e un bel giorno sul giornale ecco la pubblicità dell'Half Note: “Chet Is Back”. Quella sera mi precipito al locale. Le luci sono basse, rossastre, lo vedo da lontano... Sì, è proprio lui, uguale identico, mi avvicino, mi riconosce, un abbraccio, mi chiede di Franco, lo guardo bene. Sembra come nel Tempo ritrovato di Proust, quando l'io narrante, dopo anni che non frequenta la società e gli amici di un tempo, si presenta a una festa e per un attimo crede si tratti di una festa mascherata: infatti tutti i suoi amici hanno i volti ricoperti da maschere grottesche che ne alterano le fisionomie pur mantenendo le caratteristiche originali. E invece è solo il lavoro del tempo sui loro volti. E questo è Chet, quella sera, quando lo guardo da vicino. Il suo volto bellissimo è ancora lì, nascosto da una rete fittissima di rughe, come il volto di un vecchio capo indiano, gli occhi sono stanchi, sono occhi che hanno visto troppo orrore. Ho un attimo di smarrimento, mi sforzo per non piangere. Anche perché Chet non è un vecchio capo indiano. È un giovane uomo di quarantaquattro anni. Comunque la serata va avanti. Mi invita a suonare. Ci sono Mel Lewis alla batteria e Phil Urso al sax. Non ricordo gli altri. Ricordo però che suoniamo “Stella by Starlight” e “Stablemates”. Cose che non si dimenticano.

Da allora lo vedo spesso anche perché abbiamo lo stesso manager, un personaggio curioso mezzo indiano che arrotonda facendo il dealer. Mi capita di sostituirlo in qualche occasione o di incontrarlo a casa di Jack (il manager-dealer).
Poi quando nel '77 torno in Italia, mi capita di incontrarlo in moltissime occasioni, in vari festival in giro per l'Europa. Lui ormai ha bisogno di dosi che ammazzerebbero un cavallo, per cui non può fermarsi mai. Ha sempre bisogno di soldi. A volte suona con grandi musicisti. Altre con chiunque gli capiti a tiro o gli costi meno. Può suonare in un grande teatro con un gruppo di alto livello, o in un piccolo club coi musicisti locali solo per l'incasso. Basta non fermarsi. Mai. Nel frattempo però ha riconquistato una grande confidenza con lo strumento. Il suono è meraviglioso come non mai. È diventato un maestro nell'utilizzo del microfono. Suona vicinissimo, a fil di labbra, e in sala si diffonde questo straordinario suono soffiato. Ogni volta che suona è come fosse l'ultima. È un'ondata di feeling.

Quando il labbro non ce la fa (ogni tanto ha degli herpes che lo fanno soffrire moltissimo) improvvisa con la voce. Ed è qualcosa di fantastico. Nessuno, dico nessuno, ha mai fatto uno scat come il suo. Lo incontro al Festival di Pori in Finlandia. Suoniamo la stessa sera nello stesso teatro, per cui andiamo insieme in taxi. Mi fa vedere una gamba: è ricoperta di piaghe. La settimana precedente, mi racconta (ma io lo sapevo già), è stato in coma in Canada. Sembrava se ne andasse. Invece è già qui, in Finlandia, a fare l'unica cosa che ama veramente, oltre alla droga. Mi dice di essere stanco, stanco da morire, di soffrire tantissimo fisicamente, di non farcela più a vivere. Poi, un paio d'ore dopo, fa uno dei più bei concerti che io abbia mai sentito. Mi commuovo ancora al ricordo. Dopo il concerto ci vediamo di nuovo, è felice, rilassato, ha voglia di suonare ancora, ha sentito che il labbro rispondeva, e anche le dita, e i riflessi e la magia erano con lui.
Anni, decine di migliaia di chilometri, sempre alla ricerca della musica e della roba e sempre con la magia in tasca. Sempre circondato dagli avvoltoi-dealer. Gli ultimi tempi le cose erano più facili. Aveva un manager olandese che si occupava di lui. Tutto era organizzato meglio, la situazione economica buona, a volte molto buona.

L'ultima volta che l'ho visto è stata nell'88. Abbiamo suonato insieme a Torino, in un Teatro Carignano gremito all'inverosimile. C'era anche Joe Henderson. A cena dopo il concerto mi diceva di essere molto felice perché aveva dato un acconto per l'affitto di una bella casa vicino a Parigi dove l'avrebbe raggiunto la sua ragazza. Le cose stavano andando bene e per la prima volta da decenni avrebbe avuto un indirizzo stabile. Non l'avrei mai più visto. Il 13 maggio 1988 stavo suonando in un club a Parigi. Durante l'intervallo un amico mi ha detto che Chet era volato giù da una finestra d'albergo ad Amsterdam ed era morto sul colpo. Come non avesse le ali.



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