Nicola, barese purosangue da alcuni anni trapiantato ormai stabilmente nella Capitale - trasferimento emulato con fortune diverse persino dal Fantantonio nazionale Cassano - negli ultimi due lustri è stato capace di abbracciare l'intera gamma dello scibile letterario. Se si escludono i mestieri di giornalaio e strillone, gli altri ruoli sono stati tutti ecellentemente ricoperti dal talento pugliese. Scrittore raffinato e cristallino, editor e ghost writer per diverse e importanti case editrici, curatore della collana “Nichel” di Minimum Fax, a dispetto della giovane età è una delle voci narrative più interessanti del panorama letterario contemporaneo. Ho avuto il piacere di scambiare due chiacchiere con lui.
Da Drive in a Facebook, vent'anni di storia politica e
sociale pubblica attraverso il privato dei protagonisti. Perché hai
voluto mettere in scena proprio questo ventennio nel tuo Riportando tutto a casa?
Credo che l’Italia, per la sua strana posizione sullo
scacchiere del mondo – un paese dalla cultura millenaria, ma sempre un
mezzo passo indietro rispetto a nazioni come Francia, Inghilterra,
Germania, Stati Uniti, e ora anche Spagna – sia uno stupefacente,
inquietante, mostruoso laboratorio di avanguardia sociale a livello
planetario. All’inizio del Novecento, il nostro impatto ritardato con
la modernità (che in Inghilterra aveva già una compiuta
rappresentazione nei romanzi di Dickens del secolo passato) ha regalato
al mondo il know how delle avanguardie e soprattutto la triste formula
del fascismo. Vent’anni fa, l’impatto ritardato con la dopomodernità (i
mass media, la televisione commerciale in particolare), un impatto con
per il quale non eravamo ancora culturalmente preparati, ha fatto
sbocciare la prima videocrazia veramente compiuta. Spero che almeno in
questo caso l’Italia non contagi il resto del continente. Ma comunque…
un paese in cui sono vivi contemporaneamente personaggi come Massimo
D’Alema, Silvio Berlusconi, papa Ratzinger, Totò Riina, Wanna Marchi,
Fabrizio Corona, le camicie verdi di Umberto Bossi ecc. ecc. non può
più essere rappresentato da un affresco neorealista, non è neanche
un’esplosione postmoderna, è un incubo di Bosch con sottofondo di
jingle pubblicitari. È una dimensione nuova e inquietante, una sorta di
fantascienza del reale davanti alla quale non eravamo mai stati prima.
Un luogo e un teatro degli eventi in cui magari è brutto vivere, ma è
un’occasione di racconto irripetibile. Ecco perché – attraverso una
storia privata, come tu giustamente dici – ho voluto raccontare questo
periodo. L’Italia degli ultimi vent’anni è un incubo che merita di
essere raccontato.
I tuoi anni '80 come sono stati?
Belli, intensi, dolorosi. È il periodo in cui ho scoperto la
musica, il sesso, la droga, le controculture, e ho sperimentato per la
prima volta sentimenti basici come amore, amicizia, odio, viltà,
coraggio, senso di perdita e di tradimento. Ho attraversato Bari da
cima a fondo, in quel periodo, e l’ho fatto con persone la maggior
parte delle quali si sono poi perse per strada. Ecco. È il senso di
colpa del sopravvissuto, indissolubile dalla pretesa arrogante di voler
testimoniare per chi non può più farlo… è stata questa miscela di cose
a far nascere Riportando tutto a casa.
Hai riprodotto con precisione chirurgica l'ambientazione
(essendo cresciuto a Japigia mi sono quasi commosso alla rievocazione
di Toquino e della sua sedia a sdraio). Perché hai scelto proprio Bari
e non un'altra città?
Bari all’epoca per me è stato davvero un posto in cui poter
fare esperienza. Come ogni città degna di questo nome dovrebbe essere,
sin dai tempi di Baudeleare e di Hugo. Era un luogo insomma che ne
conteneva molti altri: oltre un centro molto opulento e fighetto, si
apriva la città alternativa, un posto pieno di sale prova e di musica e
di idee stampalate e vitali e a volte anche struggenti dove i miti si
cucivano addosso a personaggi come Ian Curtis o Morrisey o Lydia Lunch
allo stesso modo con cui indifferentemente (e settimanalmente) venivano
incarnati da ragazze e ragazzi del posto di cui nessuno fuori dai
confini cittadini ha mai saputo niente. E ancora, oltre la Bari
alternativa si apriva la periferia estrema, quella del CEP e di
Japigia, che al tempo era appunto tra le altre cose un supermarket
d’eroina a cielo aperto funzionante 24 ore al giorno. La città – come
accadeva del resto in tanti altri agglomerati urbani d’Europa – era
popolata anche dai tossici, i quali rappresentavano uno scandalo
vivente, la conferma che (al di là della frivolezza da vuoto pneumatico
che pervadeva l’etere) tra le strade strisciava anche un malessere che
io trovavo assolutamente giustificato, tenendo conto di cosa stava
diventando l’Italia. Quei tossici, quei musicisti, quelle ragazze e
quei ragazzi che poi erano il vero cuore della città, fanno oggi parte
di una generazione (la mia) per adesso sconfitta e messa alle corde. Se
la Storia la scrivono i vincitori, però, la letteratura e il cinema e
l’arte in generale spesso si occupano di vinti. Ed ecco, come ogni
generazione anche noi abbiamo sviluppato un modo unico e irripetibile
di amare, perderci per strada, tradire, essere ironici o comici o
disperati, scoprirci addosso inaspettati momenti di viltà e di
coraggio. Se non è un romanzo o un film o una poesia, a disseppellire e
ridare dignità a tutto questo, ci sono poche altre cose che possono
farlo. È questo insomma il riscatto a cui la letteratura può puntare e,
se “Riportando tutto a casa” è animato anche da una spinta etica, si
tratta in fondo di questa roba qua.
Come vivi il rapporto con la tua città d'origine? E com'è cambiata secondo te Bari in questi vent'anni?
È un rapporto complicato, doloroso, e mai riconciliato. Ogni
volta che torno a Bari sento una fitta nello stomaco. È come dover
tornare a confrontarsi con una vecchia amante con cui i conti non sono
stati regolati e forse non lo saranno mai. La città negli ultimi anni
si è molto normalizzata. Ma normalizzazione è parola fatalmente troppo
simile a mimetizzazione. È possibile che le tute acetate di un tempo
(la divisa ufficiale di spacciatori e malavitosi in generale) abbiano
semplicemente cambiato taglio, e oggi si siano trasformate in
insospettabili gessati. Del resto, basti pensare al caso Tarantini.
Bari in questi ultimi mesi – proprio, per coincidenza, il periodo in
cui il mio romanzo veniva dato alle stampe – è diventata una città
capace di sovvertire il concetto stesso di figura retorica: se prima l’
“orgia di potere” era una metafora, adesso si è ridotta a essere la
semplice didascalia dell’esistente.
Nel tuo romanzo Riportando tutto a casa c'è la
genesi del vuoto pneumatico che ci troviamo allegramente oggi non solo
a decantare e santificare ma anche tristemente a clonare geneticamente
in loop in ogni settore della nostra vita pubblica e privata. La
letteratura secondo te è stata complice di tutto questo o può essere
anzi l'antidoto alla lobotomia di massa?
La letteratura non influisce direttamente sulla realtà, o
sull’immediata vita politica o sociale di un paese. Altrimenti dalla
Germania tra le due guerre – il paese culturalmente più progredito al
mondo: avevano i migliori scrittori, e i migliori filosofi, i migliori
musicisti – non sarebbe mai venuto fuori il Terzo Reich. La letteratura
ha un compito più piccolo e più ambizioso contemporaneamente: non
evitare Auschwitz, ma fare in modo che persino dopo questi disastri
delle specie noi possiamo conservare la possibilità di riconoscerci
ancora come umani. Di conseguenza, ribalterei completamente il motto
adorniano in base al quale dopo i campi di concentramento non sarebbe
più possibile fare poesia. A contrario, solo alla poesia (all’arte in
generale) è demandato il compito – orrore dopo orrore – di garantire la
sopravvivenza spirituale della specie. Come diceva Broskij: chi
disprezza la letteratura, commette un crimine antropologico,
innanzitutto nei confronti di se stesso.
Una curiosità. Desiati, D'Amicis, Carofiglio e tu. Con tutte le
diversità del caso, quattro scrittori della stessa generazione, quattro
storie di “formazione” ambientate nella Puglia degli anni ottanta. E'
una generazione che non riesce a non fare i conti col proprio passato o
è solo un caso?
Non lo so, davvero. Amo molto per esempio i libri di Carlo D’Amicis. Ma è una domanda che non mi sono mai posto.
Chiudiamo, ringraziandoti, con il classicissimo: progetti futuri?
Vorrei scrivere un altro libro. Vorrei scrivere altri cinque o sei
libri. Ma per ora non posso: sto promuovendo Riportando tutto a casa, e
sono sempre in viaggio per reading e presentazioni, ed essendo un
romanzo a cui mi sono letteralmente immolato per due anni e mezzo senza
saltare un giorno, mi sembra giusto adesso accompagnarlo. Poi sto
conducendo un programma radiofonico per Radio Tre che si chiama
Tabloid. Poi, ancora: dovrei forse cambiare casa e ci sono almeno un
cento centocinquanta libri che mi sono ripromesso di leggere prima di
rimettermi sulla pagina. Spero di sbrigare tutte questi impegni in modo
sciolto, perché sono uno scrittore lento, il tempo non è infinito, e i
progetti che ho in mente non sono né pochi né di semplice
realizzazione. Spero che tempo e salute mi assistano.
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