letture

Un'educazione letteraria: i libri di Marta Zura-Puntaroni

In questa rubrica i nostri autori e le nostre autrici raccontano i libri che hanno contribuito a formare il loro immaginario: aspettando Noi non abbiamo colpa, in libreria il 27 agosto, conosciamo meglio Marta Zura-Puntaroni.

di Marta Zura-Puntaroni

So qual è il primo, senza dubbio.

Negli anni delle mie elementari i libri da portare a scuola erano due. Un sussidiario, che comprendeva tutto il sapere richiesto a un bambino della scuola primaria - sono sicura ci fosse una sezione di storia, una di scienze, suppongo ci fosse qualcosa di geografia, non ricordo la presenza di altre materie, che forse erano totalmente affidate ai gessetti e alla lavagna delle maestre - e un’antologia. L’antologia era un volume neanche troppo sottile che raccoglieva vari brani presi principalmente da romanzi per l’infanzia, ognuno corredato da un piccolo box bordato di azzurro in cui venivano fatte domande basilari per assicurarsi che avessimo compreso il testo. Naturalmente soltanto parte di questi brani, selezionati dalle maestre, erano utilizzati e letti in classe, così le numerose pagine rimaste intonse mi permettevano di trovare distrazione senza essere scoperta durante le ore scolastiche. In fondo al libro c’era, in due pagine estremamente fitte, la lista di tutti i romanzi da cui erano tratti i brani, e ogni volta che trovavo qualche pezzo che mi piaceva mi segnavo il titolo e andavo nella piccola biblioteca del mio paese a cercare il libro. Un giorno - credo durante l’ora di religione - mi trovai di fronte a una bellissima descrizione di una laguna di un’isola tropicale, in cui due ragazzi - dalle poche righe si poteva intuire fossero in qualche maniera naufraghi, o scampati a un incidente aereo - si facevano il bagno e trovavano una conchiglia.

Avevo circa sette anni - credo di ricordare un 2 stampigliato sotto il titolo dell’Antologia - e il mio autore preferito era Jules Verne. I suoi libri avevano tutta l’ingenuità e l’ottimismo della Belle Époque: avventure straordinarie nei luoghi più ostili all’essere umano con una percentuale di personaggi morti estremamente bassa e sempre un lieto fine. Convinta di trovarmi di fronte a qualcosa del genere mi presentai in biblioteca con scritto su un pezzo di carta quadrettata W. Golding, Il signore delle mosche. Qualche sociopatico finito a fare il redattore in una casa editrice scolastica aveva pensato un brano tratto dal Signore delle mosche potesse essere adatto alla scuola primaria, oppure non aveva calcolato la possibilità che qualcuno andasse a scorrere la bibliografia finale, si prendesse un libro intitolato a Belzebù e si trovasse di fronte a un branco di ragazzini che si ammazzano a vicenda con il volto pittato di sangue, mentre offrono teste di maiali a cadaveri di aviatori militari.

Non ci dormii per una settimana, mia madre dopo svariate notti di urla mi diede due gocce di Xanax per placarmi, era la prima volta che un libro finiva male, che in un libro morivano dei bambini, che in un libro dei bambini uccidevano, che in un libro era difficile capire chi era il Cattivo e chi era il Buono.

Il secondo, anche, non ho difficoltà a sceglierlo: Guerra e pace.

Una mia zia - o meglio, una mia amica-di-famiglia-chiamata-zia - ha fatto la professoressa di Lettere al liceo classico per quasi quarant’anni. Spesso andavamo al mare in Abruzzo in appartamenti vicini, e lei era solita risparmiare ai miei nonni qualche ora della mia presenza tenendomi con sé, facendomi leggere, tentando inutilmente di insegnarmi il greco o il latino mentre ero ancora alle medie, cose così. Per buona parte della sua carriera d’insegnante ha dato un solo compito per le vacanze estive: leggere Guerra e pace. Ha passato tutti gli anni Settanta e anni Ottanta senza che nessuno mai protestasse, ma con gli anni Novanta, pur essendosi mantenuta la gentile usanza di mandarle una cartolina dal luogo di villeggiatura, gli studenti si erano fatti un po’ meno timorosi e si prendevano qualche confidenza in più: a settembre del 1998, tornando a casa dopo un mese di mare, si trovò la solita corrispondenza estiva ad attenderla - Ciao Prof!, Saluti e Baci Prof! - ma con una quantità di riferimenti più o meno sottili a quanta sofferenza avesse provocato il doversi trascinare dietro per tre mesi quel mattone di Tolstoj. Da lì smise di assegnarlo come lettura estiva, salvando molti studenti dall’odio per la lettura. Fortunatamente io sono arrivata a Guerra e pace tardi, durante gli anni dell’università, quando sembrava che tutto quello che si potesse fare durante la giornata era semplicemente leggere.

Soprattutto per me, destinata poi per carattere e per capacità a restare chiusa nella stretta scatola dello Scrittore che è Narratore che è Personaggio che è Scrittore, tutte quelle persone, tutti quei personaggi, tutte quelle vite e tutte quelle anime che mutano di sentimento in maniera imprevedibile, incomprensibile eppure assolutamente coerente, assolutamente vera non possono che provocare una meraviglia infinita - una Natasha agli inizi del libro, mentre prende lezione di canto, che agli occhi della madre risulta un essere con qualcosa di troppo, un’abbondanza di vita, un eccesso che l’avrebbe condannata all’infelicità - una Natasha alla fine del libro che, fregandosene della madre, di Tolstoj, di noi lettori trova una felicità minuta e familiare con Pierre, una felicità che poco sembra avere a che fare con tutto quello che noi volevamo per lei - entrambe vere e inspiegabili come soltanto i personaggi che sfuggono di mano ai loro scrittori, che dimostrano la profonda e perenne mediocrità dell’autore rispetto alla propria opera, sanno fare.

Per il terzo libro ho avuto qualche difficoltà. Ho ripreso in mano Le parole di Sartre - tenevo conciliaboli con lo Spirito Santo: Tu scriverai, mi diceva - e Confessioni di una maschera di Mishima, incapace di mettermi al livello di Sartre o spiegare la grandezza di Mishima che descrive una sega di un ragazzino di fronte a un libro d’arte sono passata ad altri libri, più o meno degni, classici, qualcosa di contemporaneo, ma tutti - Austen, Eliot, le Brontë, Mann - prima o dopo di Guerra e pace hanno sempre ribadito quello che Guerra e pace ha poi detto con un’assoluta chiarezza, riassumendo tutto quello che c’era stato prima e sarebbe venuto dopo. Sono finita da Houellebecq.

In Houellebecq ho sempre trovato una disperazione che però ha qualcosa di confortante, qualcosa che, in un certo senso, prendeva in mano Il signore delle mosche e lo spiegava alla me di otto anni, nel giardino di casa dei miei, mentre la me bambina coglieva margherite e ammazzava formiche. La scelta stava per ricadere su Le particelle elementari, ero pronta a scrivere qualche riga in merito quando sono passata in cucina e mi sono caduti gli occhi su una serie di post-it rosa che stanno lì da dieci anni.

Essere artista, ai suoi occhi, significava innanzitutto essere sottomesso. Sottomesso a messaggi misteriosi, imprevedibili, che si dovevano dunque definire intuizioni in mancanza di meglio e in assenza di ogni credenza religiosa; messaggi che comunque comandavano in maniera imperiosa, categorica, senza lasciare la minima possibilità di sottrarvisi - a meno che non si volesse perdere ogni nozione di integrità e ogni rispetto di se stessi. Tali messaggi potevano implicare la distruzione di un’opera, addirittura di un intero complesso di opere, per imboccare una direzione radicalmente nuova, o talvolta per rimanere senza alcuna direzione, senza disporre del minimo progetto, della minima speranza di continuazione. È in ciò, e in ciò soltanto, che la condizione di artista poteva, talvolta, essere definita difficile.

Quindi, ecco, come terzo libro: La carta e il territorio di Michel Houellebecq.


(Foto: Chris Lawton - Unsplash)

In evidenza