la nota del traduttore

Tradurre Yates, una storia d'amore

Tradurre vuol dire anche entrare nel mondo di un autore: Andreina Lombardi Bom ci racconta il lavoro sui libri di Richard Yates. 

di Andreina Lombardi Bom

Dodici anni fa usciva in italiano Easter Parade, la prima traduzione di Richard Yates firmata da me. Il mese scorso è uscita l'ultima, Il vento selvaggio che passa. È un romanzo su cui ho sudato parecchio; è anche la chiusura di un ciclo, perché è l’ultimo inedito di Yates che posso tradurre. Non ce ne sono più. 

Dodici anni e sette libri per un traduttore sono quasi una mezza vita; significano un rapporto con un autore – con il suo linguaggio, le sue fissazioni e i suoi fantasmi – che segna una svolta nella tua esistenza.

Quando cominciai a lavorare nella redazione di minimum fax non sapevo nemmeno che esistesse uno scrittore di nome Richard Yates. (Quante cose non sapevo.)
Poi un giorno la caporedattrice mi disse: “Abbiamo finito di pubblicare le traduzioni di Yates già esistenti, adesso cominciano gli inediti; vuoi provare a tradurne uno?” Quel libro era Easter Parade

Con Yates ho imparato a tradurre la narrativa. Quanto ci ho messo a rendermi conto che la lingua della voce narrante era diversa da quella dei personaggi? Le descrizioni erano precise, complesse, affascinanti; ma i dialoghi si dipanavano per frasi fatte, come nei vecchi film di Hollywood. E al doppiaggio italiano di quei film in bianco e nero ho deciso di rifarmi, per il lessico e le costruzioni sintattiche.

Ho imparato a staccarmi dallo stile delle traduzioni contemporanee, recuperando dalla mia memoria di figlia degli anni ’60 (e nipote degli anni ’40) espressioni che ormai non si sentono quasi più: “bel tomo”, “porco diavolo”, “una persona fine”... Ho fatto parlare i suoi personaggi come parlano in italiano Cary Grant, Joan Crawford, Jack Lemmon. O come mia nonna.

Insomma per tradurre Yates sono dovuta entrare nel suo mondo, e non solo dal punto di vista linguistico. Nelle sue opere sono frequentissimi i rimandi autobiografici: prima fra tutti la figura della madre, che ritorna così spesso da diventare quasi un archetipo; ma anche amici, amori, avvenimenti. Così mi sono messa a cercare notizie e immagini sulla sua vita, perché mi sembrava che non avrei potuto tradurlo fedelmente se non avessi conosciuto per filo e per segno le storie e le persone che c’erano dietro.

Di grande aiuto è stata la minuziosa biografia composta da Blake Bailey, A Tragic Honesty: ci ho trovato le delusioni cocenti dell’infanzia descritte in Proprietà privata, l’adolescenza scontrosa di Cold Spring Harbor e di Una buona scuola, la guerra sordida e senza eroi di Sotto una buona stella, la fatica e la noia degli impieghi d’ufficio, le presunzioni e le meschinità dell’ambiente letterario... e le persone, soprattutto le persone.

Anche per Il vento selvaggio che passa ho fatto una breve ricerca in rete: partendo dai nomi citati nel libro di Bailey, sono andata alla ricerca degli individui reali che avevano ispirato la sua descrizione della bohème newyorkese – e che all’uscita del romanzo non furono affatto contenti di quei ritratti al limite della caricatura. Non è stato difficile: erano ritratti talmente precisi che, trovando le loro foto su Google, li ho riconosciuti. 

E ricostruendo la sua vita nei suoi scritti mi sono immaginata come doveva essere lui stesso: scombinato, insicuro, insopportabile – cosa di cui si rendeva probabilmente conto lui stesso: si vedano, ad esempio, gli spietati autoritratti multipli tratteggiati proprio nel Vento selvaggio – eppure sincero fino alla brutalità.

Inevitabilmente, mi sono affezionata a “zio Dick”, come lo chiamavo; l’ho anche odiato, per quanto mi ha fatto scervellare, per le notti passate al computer, per le madonne che mi ha fatto tirare... 

Adesso è tutto finito, come finiscono talvolta le storie d’amore: abbiamo esaurito le parole. Forse tra un po’ di anni le mie traduzioni saranno superate e ne arriveranno di nuove; ma saranno sempre “traduzioni di Yates”, ed è questo che conta.


In evidenza