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Tradurre Chris Offutt: Roberto Serrai racconta "Nelle terre di nessuno"

Dietro le quinte del lavoro del traduttore: Roberto Serrai racconta Nelle terre di nessuno di Chris Offutt.

di Roberto Serrai

A volte, quando traduci un libro, per forza di cose devi un po’ imparare a volergli bene. Perché è qualcosa che ti hanno affidato e che tu devi trattare il meglio possibile, anche se – fosse dipeso da te (ma non dipende) – lo avresti scritto diversamente. Diventa così un esercizio nella pratica del rispetto e della tolleranza, è istruttivo, può risultare perfino terapeutico. Si passa del tempo insieme, ci si conosce sempre più a fondo, poi a un certo punto dobbiamo salutarci. Come capita con le persone, a volte continuiamo a frequentarci, ma a volte no.

Nelle terre di nessuno, invece, è uno di quei libri che non devi andare a «cercare» tu – né con fatica, né con sacrificio. È lui che sceglie te e, quando accade, scopri di avere già dentro (quasi) tutto quello che ti serve per tradurlo. Tu e lui siete due corde che vibrano all’unisono.

Platone diceva che ad amare sono capaci tutti; è quando l’amore viene corrisposto, che gli dèi rimangono a bocca aperta. Per amare questo libro mi è stato sufficiente leggere il primo racconto, «Segatura». Nello stesso periodo lavoravo, insieme a una collega, a un libro doloroso ma assolutamente necessario: un saggio sui nazisti e l’occulto che, saputo leggere, dice molto su certe vergognose posizioni di oggi. Anzi, dice troppo: avrei voluto poterlo trattare col distacco permesso da altri saggi storici, poi mi sono accorto di quanto fosse legato alla contemporaneità, e ho un po’ tremato. Quando leggi puoi distogliere lo sguardo; quando traduci, no, non puoi e non devi.

Così, senza divagare oltre, se di giorno seguivo i peggiori percorsi di cui è (non «è stata») capace la mente umana, di sera e di notte, quando lavoravo ai racconti di Offutt, respiravo. E se di giorno per mostrarle in tutto il loro orrore dovevo addentrarmi in quelle logiche, farle – per qualche ora – mie, più tardi maneggiavo un testo che, in modi che mi sorprendevano e toccavano sempre di più, non parlava solo a me, ma anche di me, e mi dava gioia. Corrispondeva, cioè, il mio amore.

Succedeva per tanti motivi che cercherò di spiegare, ma innanzitutto per due: questi possono essere racconti crudi, con una certa quota di violenza, raccontare vite difficili e annientate (ovvero, come ha scritto con efficacia Francesca Borrelli su Alias, che sembrano ridotte e ridurre a niente), ma tra le loro righe non c’è nichilismo, e nemmeno disperazione. Come ci eravamo accorti con Luca Briasco, discutendone insieme, ci si trova comunque un po’ di redenzione e questo, diciamoci la verità, soprattutto qui e ora serve. Fa bene. In seconda battuta c’era – forte, intenso, tangibile – l’affetto per questa terra e i suoi abitanti, per questo Kentucky così ingrato e intrigato: una terra aspra, dura, raccontano le voci che parlano nel libro, ma che è la loro terra. La sola che abbiano mai avuto.

Ma andiamo oltre: questo paese è davvero «solo» il Kentucky dei racconti, o è qualcosa di anche nostro? Una specie di luogo dell’anima? E, dunque, questo libro appartiene «solo» alla letteratura americana del XX/XXI secolo o è qualcosa di (con un po’ di cautela) universale? Per me, è vera decisamente la seconda ipotesi, e lo è stata sempre di più (ho tradotto i racconti uno alla volta, senza leggerli prima tutti: una sera ne leggevo uno, la sera dopo lo traducevo, la sera dopo ancora lo rivedevo, poi lo spedivo e passavo a leggere quello successivo, e così via: ma non faccio sempre così, ogni libro ha i suoi modi e i suoi tempi) – e sempre di più questo Kentucky è diventato, come scrive Mark Strand nell’epigrafe, uno «specchio dove dorme il dolore». E se dorme, basta non svegliarlo.

Questo Kentucky è aspro, si è detto. È un luogo impervio e movimentato, di colline e montagne, conche, creste, crinali, cocuzzoli, torrenti e burroni. Tradurre questo paesaggio è stato affascinante. Come riprodurre i movimenti dei personaggi che lo attraversano in lungo e largo, in alto e in basso, simili alle spole di un telaio – e come queste lo «tessono»: trasformano il paesaggio, cioè, in testo. Se volete vedere com’è, senza andare nel Kentucky, prendete (per esempio) la statale che, uscendo da Firenze, porta verso la costa della Maremma. A un certo punto attraversa una zona (non troppo lontano dalle Colline Metallifere) che è proprio così – dove c’è pure una vecchia miniera. Anche lì c’è lo scisto, la roccia che ti si sfalda sotto i piedi e ti fa cadere, come nei racconti. Da piccolo quelle terre le attraversavo spesso, coi miei genitori, e per tradurre questo libro ci sono idealmente tornato.

Ancora di più, tuttavia, questo Kentucky somiglia al Casentino dell’infanzia di mio padre, e a quello rimpianto della mia adolescenza. Rilievi di varia altitudine (fino a 1500 metri), movimentati anche questi, ruvidi e bellissimi; terra di cinghiali, di inverni gelidi, di torrenti, alberi (anche tradurre le piante è stato bello – sempre complicato, per via dei nomi americani, ma bello) e nebbia. Non è una terra gentile con gli estranei, se non accettano le sue regole.

Durante la seconda guerra mondiale, contro le formazioni partigiane del Casentino l’esercito tedesco schierò una delle sue unità di élite – la divisione corazzata «Hermann Göring». Fu del tutto inutile, ma generò un sovrappiù di violenza: per rappresaglia, infatti, da quelle parti furono assassinati almeno 108 civili. Ma si trattava, appunto, di un sovrappiù. Perché nel «testo» di quel paesaggio la violenza non è mai mancata. Mio nonno, negli anni Cinquanta, faceva il carbonaio (esattamente come descritto nel Taglio del bosco di Cassola) e per lavorare aveva bisogno di mio padre, che dunque già andava a scuola poco e niente, ma certo non poteva andarsene per l’anno del militare. A quei tempi però c’era una norma secondo cui, se ti mancavano più di un certo numero di denti, venivi subito riformato. Mio nonno non batté ciglio: un giorno, preso da parte mio padre, gli spezzò esattamente il numero di denti richiesto. Nessuno trovò niente da eccepire.

E non è tutto qui. Da quelle parti non ci sono gli orsi ma ci sono, appunto, i cinghiali. Ci sono i daini, sì, che all’alba se fai silenzio puoi incontrare nei boschi al posto dei puma di Offutt, ma negli stessi boschi d’estate si trovano tutte le vipere che si vuole. Dei cinghiali si va a caccia (una delle cose in cui non ho mai seguito mio padre), e chi pensa che sia una innocua passeggiata nel verde non ha mai sentito in mano il peso delle apposite cartucce, così come forse non sa che ritrovarsi a sparare (volontariamente) al proprio cane non è un’eventualità troppo remota, soprattutto se è rimasto ferito; certo non si è mai trovato nei paraggi di una femmina di cinghiale con i piccoli al seguito.

Non c’erano indiani o neri da emarginare ma c’era, almeno quando ero ragazzo, l’ostilità dei «nativi» verso i «cittadini», e io che appartenevo ai secondi dovetti guadagnarmi il rispetto dei primi a forza di sassaiole e zuffe, finché un giorno riuscii a mettere a terra il figlio del marmista, una figura, per così dire, di riferimento nella gerarchia locale. Non c’erano personaggi «mitologici» (su questo torneremo) come la madre di Beth (in «Zia Lith…») con la sua radice di moli, ma avevamo la «segnatrice», una sorta di fattucchiera che le nostre madri consultavano oltre al medico di famiglia, per un secondo parere sulle diagnosi di quest’ultimo. E gli intrugli che la segnatrice ci faceva bere, qualcuno forse lo ricorderà, non erano esattamente centrifughe bio.

Tanto altro si potrebbe dire – e tutto si ritroverebbe (tradotto) in queste pagine. La grappa fatta in casa con misteriose radici al posto del whisky «artigianale», la scopa e la briscola al posto del Seven-card stud, il biliardo con le boccette al posto della «Palla 9». Aggiungerò poi che, come il protagonista di «Segatura» (e qui mi è tornata in mente la montagnola della medesima, ammucchiata in un angolo del magazzino di mio padre, sulla quale giocavo), pure a me – gli stessi che mi avevano soprannominato «carbone» – rinfacciavano spesso di aver «beccato il virus dell’intelligenza» e di darmi «un sacco di arie».

Ma adesso si impone una precisazione. Tradurre è un mestiere rigoroso. Su altri miei lavori mi è capitato di scrivere cose che somigliavano di più a un saggio teorico / critico – anche se l’attività del tradurre (secondo me) resta uno di quei campi in cui la forbice tra teoria e pratica è in genere molto, molto ampia. Ma per quanto mi sforzi, ora non riesco a non mettere avanti a tutto, per comunicare la bellezza di questi racconti, la riflessione su quanto li abbia sentiti vicini, su quanto sia convinto che possa essere una sensazione condivisa, e su quanto questo sia per loro (i racconti, e l’autore degli stessi) un valore aggiunto.

Perché commozione e ricordi a parte, il rigore e la disciplina ci sono stati (degli esiti, giudicheranno altri). Per esempio nella resa delle voci di ragazzi e bambini (in «Segatura» e in «Blue Lick», soprattutto). Qui ho ripensato a Pesca alla trota in America (1967, come me) di Richard Brautigan, e in particolare al capitolo che, in originale, si intitola «The Kool-Aid Wino». È, nella mia lettura (ma non credo di sbagliarmi, sinceramente), uno splendido omaggio a un classico del racconto americano: «A Clean, Well-Lighted Place» di Ernest Hemingway. Solo che il protagonista è un bambino. Che ha però, e non solo per il racconto che si trova alle spalle, la statura di un eroe tragico. Lotta contro qualcosa che non può battere, ma come gli eroi hemingwayani lo fa con grazia. Quindi non può diventare una macchietta, o si smonta tutto. Ed è circolata per un po’, nel nostro paese, una traduzione di Brautigan dove il ragazzino diventava proprio questo: una macchietta. Con quelli di Offutt non doveva succedere, mi sono detto – e allora certo, a volte fanno o possono fare (sor)ridere, però mi sono detto che non dovevo mai calcare la mano, mai svicolare nella macchietta, perché anche loro lottano contro qualcosa che non possono vincere (quelle vite che li annientano, si diceva), ma lo fanno con grazia, e si doveva intuire.

Quindi, per esempio, attenzione ai toni e ai suoni, oltre che al lessico. Rileggere ad alta voce, o farsi rileggere ad alta voce, e ascoltare. Da questo, poi, un’altra riflessione: dovevo cercare di rendere il Southern Midland American English che si parla in Kentucky? No. Un po’ perché (tranne per pochi termini, come «aunt» e «granny» in «Zia Lith…») si tratta più di un’inflessione, di un accento, che di forme e accezioni particolari. Un po’ perché avrei rischiato il ridicolo. Molto meglio, e più divertente, lavorare sugli idioletti dei vari personaggi, e continuare lo studio sulle atmosfere suggerito dalla riflessione sull’«universalità» dei racconti. Il rigore e la disciplina ci sono stati: penso per esempio alla traduzione dell’acqua in «Tirar su case», o della magia naturale in «Quello che devi lasciare» (e per capire bene, ahimé, l’unico modo è… leggerli); penso anche all’identificazione e al trattamento di tutto l’impianto mitologico di «Zia Lith, l’ultima levatrice» (a proposito, anche noi avevamo la levatrice, e pure per noi sarebbe stata sostituita dall’ostetrica dell’ospedale), senz’altro il racconto più «colto». Siccome è un grande racconto, lo si gusta benissimo anche senza farci caso, ma è comunque densissimo di riferimenti mitologici. Qui, per un po’, abbiamo dibattuto sull’opportunità o meno di mettere qualche nota, poi abbiamo deciso di non farlo e secondo me abbiamo fatto bene.

Però voglio svelare, qui, le due chiavi per entrare in questo secondo piano di lettura. Nelle prime righe (titolo compreso), ci sono tre nomi di donna. Beth, Lil, Lith. Uniamo Lil e Lith, e abbiamo «Lilith». Riflettiamo su chi è Lilith, nelle diverse tradizioni, e il modo di vedere questo racconto si articola, si complica. Poi: la madre di Beth, a un certo punto, per proteggere il genero gli dà un pezzetto di radice di «moli». Offutt tira fuori quest’asso dalla manica con enorme nonchalance ma, se ci punge vaghezza di scoprire di che si tratta, (ri)scopriamo che il moli è una pianta immaginaria – quella che Ermes dona a Ulisse come antidoto contro la pozione di Circe nel libro X dell’Odissea. Dopo il riferimento (un po’ occulto, avrebbe detto Eco) a Lilith, ecco che ora Beth diventa istantaneamente… Penelope. E la storia si complica ulteriormente, ma io ho detto abbastanza, e potrei fermarmi qui.

Voglio, però, concludere queste note con una piccola anticipazione, e una nota curiosa, che di nuovo ci riporta dalle riflessioni dotte, come dire, a quelle più viscerali. OK: stiamo lavorando a un altro libro di Offutt. Un romanzo. Il protagonista, nelle prime pagine, è appena tornato dalla guerra di Corea e indossa ancora l’uniforme, quando accetta un passaggio da uno sconosciuto e… succedono una serie di cose. Lo sconosciuto nota lo stemma che il ragazzo porta sulla spalla sinistra – un grifone giallo sopra un ettagono rosso capovolto, e scambia il grifone per un banale drago. Quando il ragazzo lo corregge, per di più, fraintende «griffon» per «griffith» (un termine slang che lo Urban Dictionary riconduce al bere – lo sconosciuto cerca qualcuno con cui ubriacarsi – ma ancora non sono sicuro) e dunque si confonde ancora di più.

Ora, il grifone giallo su ettagono rosso capovolto è lo stemma della 108ma Divisione di fanteria dell’esercito americano, unità dalla storia complessa ed effettivamente impegnata in Corea (qui Offutt si dimostra puntualissimo, come non sempre capita con gli scrittori e le questioni militari). Ora, nella foto qui sotto, ecco una cosa che ho nell’armadio, comprata su una bancarella, da quasi 35 anni. Non solo è della stessa unità, ma i bottoni (fidatevi) collocano questo pezzo di uniforme esattamente negli anni intorno al 1954, vale a dire proprio quando inizia il romanzo. Ora, sei stagioni di Lost ci hanno insegnato che niente accade per caso, ma che dovrei pensare: era destino? Quel che è sicuro, è che solo nel primo capitolo di questo nuovo libro, oltre che la «mia» camicia, c’è così tanto materiale narrativo che un altro scrittore ci avrebbe ricavato mezza raccolta di racconti. Ma di questo, certo, riparleremo.


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