Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini

Un assaggio dal libro

Tratto da Icarus. Ascesa e caduta di Raul Gardini di Matteo Cavezzali


Quel giorno

Ricordo il cielo. Blu al punto tale che era difficile distinguerlo dal mare. L’aria tersa. Nemmeno una nuvola a offrire riparo dalla calda luce di luglio. Il mare calmo come un gigante dormiente. Correvo sul bagnasciuga, lasciando impronte che venivano subito cancellate dalle onde. Con me gli amici di sempre. Avevo nove anni, e come tutte le estati ero in spiaggia, a Marina di Ravenna. Ricordo i tuffi da sopra le spalle del nonno Alfredo, in un punto dove l’acqua gli arrivava al petto e per noi era già alto mare. Ricordo le piste per le biglie con sopra le facce dei grandi ciclisti: Miguel Indurain, Claudio Chiappucci. Mi scottavo le spalle e il naso a furia di correre dentro e fuori dall’acqua. Non ne volevo proprio sapere di mettermi la crema, bianca e appiccicosa, una roba da femminucce, e quando la mamma ci provava urlavo come un’aquila e volavo via. Il sole non può far male a nessuno, il sole è buono, non lo vedi?

Avevamo messo in piedi una specie di gang tra i ragazzini del bagno Lucia. Era uno stabilimento balneare pitturato di rosso e bianco, semplice come sapevano essere semplici le cose, una volta. «Bagno Lucia» lo chiamavano tutti, perché da noi a Ravenna gli stabilimenti balneari si chiamano «bagno». Ci incontravamo sotto lo scivolo, accanto alle altalene, sempre occupate da due sorelle con i capelli rossi e le trecce legate strette, e lì decidevamo gli scherzi da fare. A volte un gavettone, a volte una gara a cicca-e-spanna, oppure nascondere il setaccio per la sabbia a Gèvol, «il diavolo», il vecchio guardiano della spiaggia, sempre ubriaco, che puliva la spiaggia ogni mattina. Gèvol era un burbero e andava su tutte le furie, ci inseguiva minacciandoci. La mattina apriva gli ombrelloni appoggiando la bottiglia di Sangiovese sotto ognuno, e alla fine sulla sabbia c’erano tanti tondi disegnati dal culo della bottiglia di vetro verde. «Ciò burdel! Av fagh un cul icè!», gridava, e noi via di corsa dietro il capanno dei lettini, a ridere e ridere. Eravamo dei monelli, ma alla fine ci facevamo voler bene. E anche Gèvol, quando iniziò a star male sul serio, ci venne a salutare, con la sua faccia secca e i capelli incollati in testa, e ci disse: «Io starò via per un po’, ma voi non azzardatevi a crescere!», e poi non lo vedemmo più.

Quella mattina eravamo in riva al mare, correvamo calciando la superficie dell’acqua per schizzarci, quando mia mamma mi afferrò per un braccio. Pensai al solito cicchetto che mi dava quando facevo casino, invece no. Mi disse: «È successa una roba brutta, è meglio se vieni un po’ lì con noi in silenzio. È morta una persona importante e non sta bene fare dei giochi rumorosi, oggi». «Chi?»

Io allora tornai a sedermi sopra la sedia a sdraio del bagno Lucia. Mi ricordo il silenzio. Un silenzio lunghissimo, profondo. Non avevo mai sentito un silenzio così al bagno Lucia. C’era sempre del rumore. C’erano i vecchi che giocavano a mahjong o a carte all’ombra della tettoia, scommettendo soldi e tirando giù i santi dal cielo a furia di bestemmie quando perdevano. C’erano le ragazze più grandi che prendevano il sole con le radio a tutto volume sopra i lettini, le tette al vento e le loro strambe parlate da emiliane, che si facevano delle ore di macchina per venire lì a casa nostra. C’era quel ragazzone napoletano con il naso storto che attraversava la spiaggia con il suo secchio blu con scritto lire mille e gridava: «Coccobellococcooo! Cocco bello! Tiene dritto l’uccello!», che io non capivo cosa c’entrassero gli uccelli col cocco, ma le emiliane senza il reggiseno ridevano e allora ridevo anche io. Ma non quel giorno. Quel giorno tutti erano in silenzio. Si sentiva solo il rumore del mare, con le sue onde che si schiantavano sulla sabbia una dopo l’altra, senza finire mai. Il suono che la spiaggia ha d’inverno, quando nessuno va a trovarlo, il mare, e rimane solo. Che le emiliane se ne stanno per le strade di Bologna o di Modena, e anche i ravennati preferiscono i bar di via Cavour o piazza del Popolo, e lì sulla spiaggia rimane solo il mare, e il silenzio.

Ecco, il 23 luglio del 1993 era venuto l’inverno lì in spiaggia, anche se faceva un gran caldo. E dire che quel giorno, il 23 luglio, era pure Sant’Apollinare, il patrono, gli uffici erano chiusi, ed erano tutti, ma proprio tutti, al mare. Perché era caldo ed era festa, e a Ravenna le feste si santificano con un bagno nell’Adriatico, con una partita a racchettoni e con il cornetto, ma non il 23 luglio 1993. Si alzò un forte vento, che sollevava la sabbia, e chiusero gli ombrelloni perché non volassero via. A vederli chiusi e allineati geometricamente sotto al sole, sembravano sistemati così in segno di lutto. Tutti in quel momento sapevano che quel giorno non era solo successa una vicenda di sangue, la morte di un uomo che si era sparato alla testa. Quel giorno Ravenna aveva finito di essere una città per il resto del mondo. Ravenna sarebbe tornata solo una provincia fra tante, una di quelle città che non ti ricordi bene dove sono sulla cartina. Non più la capitale dell’impero Ferruzzi-Gardini, ma un posto qualunque. Una località dove passare il fine settimana, per andare a una festa in spiaggia o visitare i mosaici, e niente di più. Quel giorno finirono le fantasie di molti ravennati, che speravano di diventare qualcuno all’ombra di qualcun altro molto più alto di loro. Quel giorno Ravenna, tradita proprio dal suo santo patrono, si svegliò da un sogno durato dieci anni, e non tornò a sognare mai più.

Quella era la prima volta che sentivo il nome di Raul Gardini.

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