intervista

Dai corsi minimum lab: Sara Tuveri intervista Alice Urciuolo

Forse la cosa più preziosa che si mette in moto durante i corsi di minimum lab sono le relazioni che nascono quando ci incontriamo per parlare di libri e di editoria. Da una di queste relazioni, nata durante un editing incrociato fra allievi editor e corsisti del laboratorio di scrittura, viene fuori un'intervista profonda e delicata a Alice Urciuolo, che ha esordito quest'anno con il suo romanzo Adorazione (66thand2nd) fra i dodici candidati al Premio Strega, a cura di Sara Tuveri, che quest'anno esordisce, anche lei, come traduttrice per Black Coffee.


di Sara Tuveri 

L’ho conosciuta nel 2019, alla lezione «incrociata» di editing pratico, dove i partecipanti del percorso di formazione in editoria incontrano e si confrontano con gli allievi del laboratorio di narrativa che decidono di mettersi in gioco tramite i loro racconti. Lei è Alice Urciuolo, sceneggiatrice di serie di successo tra cui Skam Italia per Netflix, ma anche autrice esordiente – ora candidata al Premio Strega 2021 – con il romanzo Adorazione per la casa editrice 66thand2nd. È un vero piacere per me intervistarla e avere l’occasione di parlare del suo romanzo corale e di trasformazione.

La storia è ambientata nell’Agro Pontino, tra Pontinia, Sabaudia e Latina, e i protagonisti sono dei ragazzi adolescenti tra i sedici e i diciotto anni, che a distanza di un anno ancora non sono riusciti a elaborare l’omicidio della loro amica Elena per mano del fidanzato. Nell’arco di un’estate tutti loro dovranno fare i conti con questo passato doloroso per trovare la propria strada. Immersi in una comunità ancora profondamente ingabbiata dal patriarcato, affronteranno la ricerca del loro io in un miscuglio di relazioni tossiche e non, con i coetanei ma anche con gli adulti: un confronto tra generazioni che sembrano ai poli opposti. Tra i personaggi di primo piano spiccano Diana e Vera, amiche inseparabili, la prima timida e introversa sogna di diventare neurologa, la seconda è invece molto sicura di sé e sembra tenere in pugno la vita. Poi Giorgio, fratello di Vera, che era segretamente innamorato di Elena e non ha mai trovato il coraggio di rivelarlo a nessuno. E ancora Vanessa, fidanzata con Gianmarco, che è stufa di essere trattata da tutti intorno a lei come un fiore delicato e fragile, da custodire nella bambagia. I capitoli racchiudono ognuno voci e punti di vista diversi, i quali si intrecciano armoniosamente in un romanzo che fa riflettere.


Partiamo dall’inizio, a che età hai capito che avresti scritto? Hai sentito dentro come una sorta di vocazione per la scrittura?

Sì, è iniziato veramente molto presto, ho dei ricordi di quando probabilmente ancora non sapevo leggere, e in questi ricordi mio papà mi leggeva libri, fumetti, storie di ogni tipo. È una cosa che non so collocare nel tempo perché per me c’è sempre stata. Dopo, quando ho incominciato a leggere da sola, era sempre papà la persona con cui condividevo questa passione, ci scambiavamo tantissimi libri. Nel piccolo paesino in cui sono cresciuta era difficile trovare amici appassionati quanto me alla lettura, quindi per molto tempo lui è stato l’unica persona con cui ho condiviso questo interesse. In realtà non mi sono mai chiesta che cosa volessi fare da grande, la lettura occupava da sempre così tanto spazio nella mia vita che non mi sono mai posta la domanda, sentivo dentro di me la sicurezza che il mio lavoro avrebbe riguardato i libri e la scrittura. All’inizio è stato imbarazzante incominciare a dirlo apertamente, si tratta di un mestiere che alla maggior parte delle persone risulta inafferrabile, la risposta che ottenevo di solito era: «Sì certo, ma cosa vuol dire vuoi fare la scrittrice?».

Dopo l’università hai frequentato il master della Rai per la scrittura seriale, poi anche il laboratorio di narrativa minimum lab. Quanto è importante secondo te – oltre a molto impegno – la formazione per canalizzare la passione e trasformarla in un mestiere vero e proprio?

Secondo me davvero tantissimo. C’è un pregiudizio che negli anni è stato dannoso anche per me, ovvero il credere generale che per fare un lavoro artistico servano il talento, l’ispirazione, la vocazione e che queste cose da sole possano bastare. Come tutti anch’io l’ho subito: pensavo ho la vocazione e un minimo di attitudine, ma quando mi sono detta «Ora scrivo un romanzo» non ci sono riuscita perché all’inizio è impossibile. L’idea di fondo che rimane è in realtà allora io non ne sono capace, non sono la persona adatta. Per tanti anni è stato molto deprimente, era la cosa che più desideravo al mondo ma non ci riuscivo, quello che scrivevo non mi sembrava all’altezza. Con il tempo ho capito che anche nei mestieri vittime di questo pregiudizio – ovvero che basti la spinta del talento – ci sono moltissimi strumenti da imparare e studiare. Perciò anche per scrivere serve un bagaglio tecnico, oltre all’inclinazione personale. Per questo motivo nel momento in cui non si riesce a scrivere un romanzo che sta in piedi la spiegazione sta nel fatto che alcuni strumenti tecnici non si possiedono. È stato faticoso riuscire a capire questo e mettere da parte la vergogna e l’imbarazzo delle prime cose che si scrivono perché sembrano sempre orribili. Per me i corsi di formazione e le scuole sono stati uno strumento fantastico: oltre alle tecniche, ti insegnano a pensare che il talento è il tuo seme e poi tu lo devi annaffiare, come una materia prima da far crescere, lievitare e anche che il confronto con le altre persone è indispensabile. La verità è infatti che scrivere è un mestiere solitario solo fino ad un certo punto, è vero che l’atto dello scrivere avviene in solitudine, però è anche vero che ci sono tantissime persone che lavorano in questo ambito e che se ne occupano quindi un corso è anche un modo per entrare in contatto con professionisti e colleghi, è molto importante sentirsi inserito in una realtà e non essere più isolato nella propria cameretta. Per esempio a me è successo così, è stato al minimum lab infatti che ho conosciuto Alessandro Gazoia, editor con cui poi ho lavorato su Adorazione.

A proposito del romanzo: com’è nata l’idea di parlare di un sentimento controverso come l’adorazione? Cosa ha acceso in te la volontà di parlarne, un cambiamento nella società che ti ha incuriosito oppure qualche esperienza personale?

Quello che ho scritto nasce da un vissuto personale. Spesso dico che questo libro non è un’autobiografia in sé e per sé ma è ciò che definirei un’autobiografia sentimentale. Mi sembra di aver rielaborato gran parte del mio vissuto sentimentale – e di quello delle persone che avevo intorno – e di averlo trasposto nel libro. Però anche come dici tu, di queste esperienze ho scelto di raccontare la parte che mi sembrava più in correlazione diretta con lo spirito del tempo, ovvero ciò che mi sembrava importante non solo per me, ma ciò che mi sembrava risuonasse anche per tante altre persone, in modo particolare per la storia di Elena che ho scelto di raccontare. All’inizio Elena non esisteva, esistevano solo Diana, Vera e altri personaggi, ma piano piano l’universo si è espanso. Elena è nata dopo perché volevo che il cuore di questo romanzo fossero i rapporti di potere tra uomini e donne. Per fortuna oggi si sta incominciando a parlare molto di più di violenza di genere, si affronta questo argomento spesso dal punto di vista giusto, nonostante ancora ci siano articoli di giornale che parlano di «troppo amore». Elena ed Enrico per me erano l’estrema conseguenza di una dinamica in cui il potere è molto più importante dell’amore. Mi sembrava una stella polare da mettere sulla testa di tutti i miei protagonisti, molto nera, molto oscura che però non è la storia centrale, perché di Elena ed Enrico si parla in modo marginale, ma loro due incarnano l’estrema conseguenza di una dinamica che alla fine riguarda tutti i personaggi. Tutti loro hanno a che fare con relazioni tossiche e solo alcuni riusciranno a rendersene conto e provare strade alternative, come per esempio Vanessa e Giorgio.

La storia è ambientata in provincia, nell’Agro Pontino, dove sembra esserci questa eredità fascista che incombe, con la sua gabbia del patriarcato che colpisce tutti i tuoi personaggi allo stesso modo, maschi o femmine che siano.

È un’eredità con cui tutti noi ci ritroviamo a fare i conti, non solo le persone che vivono nella provincia che racconto, però in quella provincia questa eredità è indimenticabile perché se esci di casa lo vedi che la tua città è stata costruita dal regime fascista, è sempre davanti agli occhi. Tutta la comunità si ritrova a farci i conti, ragazzi e ragazze, tutti quanti si ritrovano penalizzati da questo tipo di impostazione culturale. Le ragazze ovviamente perché si ritrovano in una posizione subordinata, ma anche i ragazzi perché a entrambi è stato imposto un codice comportamentale alla nascita da cui sembra impossibile effettuare una deviazione. Non sono ammessi altri tipi di esistenze se non i ruoli predefiniti che sono stati destinati all’uomo e alla donna. Quindi, nonostante si creino delle situazioni in cui c’è uno squilibrio di potere veramente pesante, in tanti casi tutti sono vittime e tutti sono carnefici, e certe volte sono entrambe queste cose insieme, sia le donne sia gli uomini, proprio perché è un’impostazione culturale problematica per tutti.

È vero, infatti hai declinato il problema anche in base alla generazione coinvolta: nonni, genitori e figli. Gli adolescenti cercano di creare nuove strade per loro stessi, saranno loro i nuovi esempi alla fine?

Sebbene ci siano queste generazioni anagraficamente distanti, tutte queste persone sono irrisolte allo stesso modo a prescindere dall’età. Essendo tutte nate in quel luogo, si ritrovano ad aver ereditato un certo tipo di impostazione culturale. Tutti devono fare un percorso, ma è ovvio che per certe persone è impossibile, come per esempio per Stella – la nonna di Vanessa, Giorgio e Vera – lei non potrà mai cambiare. Anche alcuni genitori sono molto rigidi, ma in realtà è molto meglio di quello che potrebbe sembrare, perché ad esempio Walter – papà di Vanessa –, che sembra l’ultima persona in grado di comprendere e aiutare sua figlia, invece poi si rivelerà molto comprensivo e in grado di sostenerla nella maniera migliore. Tutto sommato anche Manuela e Diletta nel corso del romanzo diventeranno delle madri migliori, riuscendo a comprendere meglio le loro figlie Vanessa e Diana. È chiaramente più difficile per chi ha vissuto più a lungo immerso in un certo clima, però certamente questo sì, saranno i ragazzi a dover creare nuovi esempi. Tanto di quello che succede nel corso di questa estate, il dolore e il dramma, è dovuto al fatto che non c’è un esempio diverso. Tutto quello che succede, succede perché loro vanno a sbattere come in stanza buia che non conoscono, appunto per trovare delle misure, o meglio delle nuove misure.

C’è anche poco dialogo tra le varie generazioni. In un punto del libro descrivi una Vera disperata mentre riflette da sola: «Forse, se qualcuno si fosse preso la briga di parlarle, se qualcuno le avesse spiegato che cosa era amore e cosa no, forse lei sarebbe stata in grado di evitare un sacco di cose. Forse ne avrebbe accettate di meno e ne avrebbe tenute lontane di più. Ma nessuno parlava. Nessuno le aveva mai detto: Adesso hai le mestruazioni, vieni, ti accompagno dal ginecologo. Nessuno le aveva mai detto: Non c’è niente di bello nel farsi trattare male da un ragazzo. Nessuno le aveva mai detto: Vieni, parliamo di tuo padre. Era tutto una vergogna, era tutto da tacere, tutto da passare sotto silenzio. Tutto, nella sua vita, era da nascondere».

Viviamo in una società che ci porta moltissimo a sovrapporre l’amore al dolore, tutta la retorica di «L’ho perso e allora ho capito che l’amavo» oppure «Sto soffrendo tanto perché lo amo», crea una forte confusione tra sentimenti spiacevoli e legami molto forti. In parte è vero che il dolore è sintomo di una forma di attaccamento, perché il dolore ti lega a una persona, quindi l’attaccamento è reale, però non si tratta di amore ma di ossessione. I riferimenti di tutto quello che si impara assorbendolo per osmosi – appunto perché nessuno ne parla – riguardano argomenti cosiddetti difficili, più sono difficili e più vengono taciuti, e si impara a gestirli da soli senza condividerli con nessuno. Siccome sono imbarazzanti, complicati e ci si vergogna, l’atteggiamento è quello di evitare spiegazioni – tanto lo capirai da solo. Ed è questo il punto, anche se da adulto affronterai queste problematiche non ti verrà naturale parlarne a tua volta con i tuoi figli, perché sarà imbarazzante anche per te e non avrai gli strumenti giusti. Spero davvero che tante ragazze e ragazzi che si sono trovati nella stessa situazione, leggendolo si sentano meno soli e possano intravedere prospettive diverse rispetto a questo.

Mi trovi d’accordo, infatti è passato un anno dall’omicidio di Elena e nessuno ha ancora elaborato il lutto: un altro argomento tabù perché troppo imbarazzante. L’assenza di Elena è centrale per questi personaggi.

Esatto, ho voluto costruire Elena partendo dalla sua assenza, è un personaggio a tutti gli effetti, ma la si conosce attraverso gli altri personaggi, a volte anche con pareri un po’ discordanti tra loro. Per me infatti non era veramente importante spiegare chi fosse Elena, ma perché Elena era parte della vita di ognuno di questi personaggi. La sua storia diceva qualcosa anche della storia degli altri.

Quando non si affrontano problemi di questo tipo possono anche restare irrisolti per tutta la vita. Non affrontare un lutto così importante ha gravi ripercussioni, perciò non è un caso se alla fine sono solo alcuni i personaggi che intraprendono un percorso veramente risolutivo. Loro riusciranno a farsi attraversare da quello che è successo, elaborarlo perché capiscono cosa è andato storto e cosa dice delle loro relazioni, e poi anche a crescere, quando invece per gli altri è più difficile.

Questo mi fa pensare al personaggio di Christian, forse il meno risolto tra i tuoi protagonisti, ex fidanzato di Elena, con gravi problemi in famiglia per via di una forte depressione che affligge sua madre.
«Riccardo sorrise, Christian no. Quello era uno di quei racconti che gli faceva pensare che sua madre fosse stata veramente felice solo molto tempo prima che nascesse lui. Carla raccontava sempre di corse sfrenate sui pattini, di pomeriggi in discoteca di nascosto dai genitori, di fughe notturne insieme a suo padre e di altre avventure di cui era proprio lei l’ideatrice, e Christian veniva sommerso dalla malinconia, avrebbe dato qualsiasi cosa per conoscere sua madre allora».

È vero, anch’io credo che lui sia il meno risolto proprio anche per la sua questione familiare. Non è scontato che un figlio si senta amato dalla madre. Certo, lui si sente in colpa, perché si sente come se fosse stato lui a creare un problema a sua madre.  Perché pensa: in realtà mia madre è stata felice solo quando io e mio fratello non esistevamo? Il mio intento era anche qui quello di far emergere quanto in realtà l’amore e il dolore vengano sovrapposti.

Quanto tempo ha impiegato effettivamente la scrittura del romanzo? La gestione di tanti personaggi e l’intersecarsi di ciascun capitolo per un personaggio ogni volta diverso, com’è andata questa parte di costruzione meccanica?

È stata molto lunga, devo dire che è stata anche molto complicata e ha visto tantissime modifiche. È stato proprio un laboratorio che è durato tantissimo, lo schema di creazione dei vari personaggi e della struttura del romanzo, intendo. Anche antecedente al momento di scrittura stessa, nel senso che prima di scrivere intensamente – come ho fatto poi per un anno – c’è stato un lungo periodo di costruzione solo mentale di questo romanzo, prendendo appunti. Cambiavo la struttura anche, ma si trattava solo di costruire questo romanzo e non scriverlo realmente all’inizio. Una lunghissima fase di elaborazione in cui tanti pezzi sono cambiati finché non mi sono sentita sicura di iniziare la stesura vera e propria.

Nel romanzo è citata una meravigliosa poesia di Tracy K. Smith tratta dall’antologia Nuova Poesia Americana vol. I (Edizioni Black Coffee), quanto c’è del tuo bagaglio di lettrice nella tua scrittura?

Sì, io credo che tutte le influenze – anche magari quelle meno dirette – rendano il tuo bagaglio di strumenti molto personale, per questo motivo sono molto importanti e vanno usate. Sono tante le cose che non riguardano strettamente la narrativa che mi hanno influenzato molto, in generale, e poi anche come scrittrice. C’è stato un periodo della mia vita in cui leggevo praticamente solo poesia, ed è durato anni. Anche la scrittura cinematografica mi ha influenzato, e in particolare il film Belle de jour. È bello farsi influenzare anche da cose che non sono convenzionalmente dei riferimenti, essere molto aperti e farsi attraversare da tante cose diverse. Tra le serie tv ad esempio Sharp Objects di HBO, tratto dal primo romanzo di Gillian Flynn Sulla Pelle (Piemme), anche autrice di Gone girl – L’amore bugiardo (Rizzoli); e Unbelievable di Netflix. Questi sono stati dei riferimenti importanti, oltre ai riferimenti narrativi: La più amata di Teresa Ciabatti (Mondadori), Atti osceni in luogo privato di Marco Missiroli (Feltrinelli), Troppi paradisi di Walter Siti (Einaudi), Le particelle elementari di Michel Houellebecq (Bompiani), e Le ragazze di Emma Cline (Einaudi Stile Libero).

Quando ti piace di più scrivere?

Mi piace molto scrivere la mattina, però in realtà ormai non mi sento neanche troppo legata al tempo, è diventato talmente quotidiano che lo faccio sempre a prescindere, se la mattina ho altri impegni non è un problema scrivere dopo. Prima avevo bisogno di circoscrivere l’azione per trasformarla in un rito quasi, ma ora è diventato parte di me e non ne ho più bisogno. Come una disciplina. Mi aiutava a creare la concentrazione, ma ora è un gesto spontaneo. Perché all’inizio l’unica tecnica è costringersi, fino a quando non è più necessario. Come la palestra o il body building.

Quanto è importante il rapporto con l’editor per migliorare la scrittura?

Per me moltissimo, guarda. Ho avuto la fortuna di lavorare con una persona con cui c’era molta stima reciproca, molta sintonia, e – più importante – tanta fiducia. Perché nei momenti in cui ero sfiduciata, sapevo che c’era una persona al mio fianco che quasi riusciva a vedere il romanzo più di me. Quindi la cosa più importante per me è stata questa, la totale fiducia nei confronti di qualcuno che per me era una guida. Con uno scambio reciproco continuo, che è stato fruttuoso, si è creato un rapporto di collaborazione e di fiducia.

A cosa stai lavorando adesso?

In questo momento sono impegnata come sceneggiatrice in diversi progetti di cui spero si potrà parlare presto. E invece per quanto riguarda la narrativa nel mio futuro vedo sicuramente un secondo romanzo. 


Sara Tuveri si è laureata in Lingue e culture dell’Asia e dell’Africa a Torino; ha lavorato e vissuto a Malta, da qualche anno è tornata in Italia, dove ha frequentato il percorso di formazione in editoria di minimum lab. È fra i traduttori dell'ultimo numero di Freeman's, Amore (Black Coffee). 

Alice Urciuolo lavora come sceneggiatrice. È tra le autrici della serie di successo Skam Italia ed è attualmente impegnata nella scrittura di altri progetti per piattaforme internazionali. È nata in provincia di Latina, vive a Roma, nel 2018 ha frequentato il laboratorio di scrittura di minimum lab. Adorazione (66thand2nd) è il suo primo romanzo.

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