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Casa d'altri: Rossano Lo Mele racconta Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco

Casa d'altri è la rubrica in cui librai e scrittori raccontano un libro.
Prende il nome da una straordinaria raccolta di racconti di Silvio D'Arzo, e ci sembrava il più adatto visto che ci piace parlare di libri, non solo dei nostri.

Rossano Lo Mele, in libreria con Scrivere di musica, ci racconta Ipotesi di una sconfitta di Giorgio Falco (Einaudi Stile Libero).


di Rossano Lo Mele

Le canzoni più trasmesse in radio in Italia, 20, 30 anni fa, erano perlopiù straniere. Inglesi, americane. Poi è successo qualcosa, negli ultimi anni. La seconda ondata rap nazionale ha fatto sì che sempre più si enucleasse l’universo mondo nella nostra lingua. Questo bisogno di raccontarsi, delle cose quotidiane, della vita vera, di sentirsi noi, la comunità, altro che scimmiottare i modelli esteri. Un atteggiamento da osservare con moderato sospetto: non tanto per il principio, la causa, ma per l’effetto. Che ce ne facciamo di racconti che siano dei sopralluoghi nel quotidiano fatti tutti con le stesse voci, dove per voci s’intende sguardi?

Giorgio Falco ha questo, prima di tutto. Uno sguardo: lo ha da sempre, cioè da tutti i libri che ha finora pubblicato: Ma qui si va oltre. Ci sono interi angoli peciosi delle nostre esistenze e del paese in cui abitiamo in cui nessun altro sa vedere in questo modo.

La prassi del raccontare la nostra realtà è ormai confinante con una sorta di sovranismo (banalizzazione) culturale che in fin dei conti, ha impoverito noi e i nostri sguardi. Non è fastidioso sentire l’ennesimo rapper, trapper o chi per lui con i medesimi arrangiamenti: è molesto sentire quella stessa voce dove alla veneranda età di 20 anni si spaccia una realtà in cui si è visto ed esperito tutto. 20 anni. Un rosario di calamità con la paghetta – e la droga, e le scopate, e il parchetto, e gli amici, e i fratelli, e i per sempre, e il carcere, e le umili origini. E Milano. Milano. Milano. Milano Italia.

Da qui parte, dal margine di un Naviglio, il romanzo di Falco. Il libro di Falco parla di noi perché - eludendo del tutto il discorso usurato sui precari anni ‘00 - parla di lavoro. Del resto non è la prima cosa che chiediamo a una persona quando la incrociamo? E tu, che fai nella vita? Non cosa sei, ma che lavoro fai per sopravvivere al tritacarne.

Il libro di Falco parte dalla storia di suo padre. Immigrato dal profondo sud al nord, come tanti dei nostri genitori. Impiegato per tutta la vita presso l’azienda di trasporto pubblico milanese, il padre dell’autore era un uomo metodico che – sempre come molti dei nostri genitori – non ha trascorso l’esistenza a farsi domande sulla sensatezza o l’ottundimento legato alla sua professione, funzionava così. Dopo questo excursus entra in scena l’autore.

Nelle circa 400 pagine che compongo il volume si trova un po’ di tutto. Dalla fine delle scuole superiori in poi, mollati gli studi, l’autore svolge quasi ogni mansione. Prepara spille e merchandising per il concerto di Bruce Springsteen, volantinaggio, facchinaggio, lavora nell’indotto della moda (quei flash sul pranzo all inclusive con il collega: superbi, riescono a rendere da soli l’idea della stanca ubriachezza pomeridiana). Spesso orari massacranti. Colloqui, focus group (ma come fa Falco a ricordare tutta la storia del lancio della Ford Fiesta?) fino allo sbarco nel nuovo millennio. La telefonia mobile. La new ecomomy che ci avvicina e che invece tiene sigillato, al riparo da tutto, volontariamente imboscato o meno, Falco e le sue pagine.

Falco ritrae decenni di storia nazionale senza formulare giudizi sull’insensatezza delle nostre giornate. Soprattutto quelle aziendali o impiegatizie, s’intende. La piccineria della Cattiveria (anche il nome di uno dei personaggi più riusciti della gallery umana, non a caso) quotidiana; chi si sente arrivato perché occupa un posto dis-umano, proprio nel senso che non ha più contati con l’umanità. Quello stupidario che tutti abbiamo attraversato nei luoghi di lavoro, che ben presto da tali si tramutano in posti dove trascorriamo le nostre ore facendo battute, mercificando i nostri segreti e creando intimità con persone che fuori da lì neanche valuteremmo di poter frequentare. Perché in fin dei conti è lì che accade il nostro tempo.

L’obbligo del quotidiano che si fa volontà, la percezione de sé data solo da quello che si fa e si ha, non da quello che si è. Una sorta d’istupidimento o di narcosi di massa, indipendentemente dalle epoche o dal lavoro affrontato, dove i vari capi di turno sono anche quelli che danno ordini perché si fa così, e basta. Il racconto del quotidiano e dei nostri spazi ormai è andato in overbooking. Dall’averne un disperato bisogno siamo passati a un gomitolo di storie per non dire tic che allude sempre e solo quello. Oltre il confine nazionale non c’è nulla, in musica si parla solo del qui e ora, instalove e hinterland che conosciamo senza averci mai abitato. Canzoni come stories o chat su Telegram, che si autodistruggono dopo poco.

Non è ciò che si racconta però a fare la differenza, ma come. Lo sguardo. Lo stile, parola ormai bandita dal nostro vocabolario a meno che non si parli di outfit. Mauro Covacich che ritrae Roma racchiudendola tra corse, mancati pagamenti, famiglia, negozianti al dettaglio, stranieri, crea un quadro contemporaneo, spurio ma potente – perché invisibile – della capitale (Di chi è questo cuore). Lo stesso, su Milano, Italia, ha fatto Giorgio Falco con Ipotesi di una sconfitta: più che una possibilità, una sconfitta conclamata, che parte dal cuore del ‘900 e scorre ancora nelle vene del nuovo millennio. Immutabile. Non dico che si debba far leggere il testo nelle scuole – il che sarebbe comunque auspicabile. Ma agli occupati non ancora del tutto bruciati e a chi è in cerca di occupazione, questo sì. Qui dentro alita, pesantemente, il nostro paese.


(Immagine: Sharon McCutcheon - Unsplash)

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