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Casa d'altri: Gabriele Sabatini racconta Il diavolo in Francia di Lion Feuchtwanger

Casa d'altri è la rubrica in cui librai e scrittori raccontano un libro.

Prende il nome da una straordinaria raccolta di racconti di Silvio D'Arzo, e ci sembrava il più adatto visto che ci piace parlare di libri, non solo dei nostri.
L'ospite di questa puntata è Gabriele Sabatini, in libreria con
Numeri uno. Vent'anni di collane in otto libri: ci racconta Il diavolo in Francia di Lion Feuchtwanger (Einaudi, traduzione di Enrico Arosio).


C’è un uomo che aspetta: si chiama Lion Feuchtwanger e sa che a breve lo verranno a prendere per portarlo via e strapparlo alla sua vita. A dargli la notizia è stata la radio, in una sera di maggio del 1940: i cittadini tedeschi residenti in Francia, e dimoranti nell’area di Parigi, verranno internati. L’uomo pensa per un attimo che il provvedimento non riguarderà le regioni del Sud, dove vive, perché lontane dal fronte. Ma sa anche che quel pensiero è una sciocchezza.

La casa bianca, piena di luce, affacciata sul mare; i libri, lo studio in cui lavorare e da cui vedere i confini delle terre, le passeggiate tra gli alberi: sul finire degli anni Trenta, la vita del famoso scrittore Lion Feuchtwanger appare incredibilmente ordinaria, perfino serena.

Almeno finché il presentimento del male non divenne certezza. Gli ultimi giorni nella bella casa di Sanary-sur-Mer sono avvelenati dalla paura, dall’angoscia: Feuchtwanger ha la certezza che qualcosa di terribile accadrà perché è inevitabile che accada, ma non sa quando. La bomba è sotto al tavolo, come diceva Hitchcock, e sia il protagonista della vicenda sia i lettori ne sono consapevoli. I gesti e le parole assumono allora una gravità diversa: i gatti che mangiano, le chiacchiere della moglie, i tentativi vani di lavorare, sono solo rumori confusi che lasciano il posto al pensiero assillante del momento in cui uomini in divisa verranno a prenderlo. Altre volte, invece, il tempo sembra rallentare, per cristallizzarsi in attimi prima insignificanti, ma che in quel momento, avvelenati dalla paura, sembrano racchiudere la saggezza della vita.

Cos’è, questo male che deve accadere. È Il diavolo in Francia; è la drôle de guerre; è la consapevolezza di essere in un cunicolo senza via di fuga, perché di colpo, allo scoppio della guerra, quello scrittore antinazista che aveva cercato e trovato riparo in Francia, viene dai francesi considerato un possibile nemico, solo perché tedesco.

Famoso, Feuchtwanger lo era per davvero: i suoi libri erano tradotti in tutto il mondo, e gli estimatori – spiega Wlodek Goldkorn nella prefazione – erano equamente distribuiti tra ceti popolari, intellettuali e politici di spicco. Quanto Hitler diventa cancelliere, i nazisti devastano la sua villa: per l’oppositore di origine ebraica, Berlino non sarà più la sua città, e i suoi libri saranno arsi sul rogo.

La storia raccontata in questo testo, che è la cronaca della vita in un campo di internamento francese e dei successivi eventi per fuggire dalla Francia, è, in fondo, la storia di chi si trova sempre dalla parte sbagliata. E se c’è una cosa che Il diavolo in Francia ci insegna è che il caso governa le nostre vite più di quanto possiamo immaginare. A nulla, avverte Feuchtwanger, valgono i tentativi di comprendere le cose, di dare loro un ordine. Per l’autore, nemmeno la Storia può essere d’aiuto: «“La Storia è il dar senso all’insensato” ha scritto un acuto professore tedesco, che in seguito venne assassinato dai nazisti». L’acuto professore tedesco era Theodor Lessing, che cercò a lungo e invano, di comprendere le ragioni del male quando raccontò il caso di un assassino nell’oscura e violenta Germania degli anni Venti (Haarman. Storia di un lupo mannaro), ossia l’orrore nascosto in un orrore ben più grande.

Non deve allora stupire l’arrendevole rassegnazione di Feuchtwanger alle cose: a trattenerlo in terra francese (terra che lo aveva accolto con tutti gli onori, e che ora lo imprigionava) era stato il desiderio di fermarsi, di aggrapparsi a qualcosa di stabile, nell’illusione che potesse appartenergli per sempre. Nella sua prosa non c’è quasi mai l’orrore, né il male devastante che il titolo del libro fa presagire (i campi di internamento francesi non sono i Lager); c’è invece una riflessione esatta, brillante, crudele nella sua normalità: è in taxi, che Lion Feuchtwanger si reca al campo a cui viene assegnato. Diventare prigionieri in quel momento significa preparare un bagaglio non troppo pesante, riempirlo con coperte, vestiti già logori, libri leggeri e una sedia pieghevole. Significa percorrere un lungo corridoio, facendo i conti con la propria inadeguatezza fisica; lavorare ininterrottamente per fabbricare mattoni, avendo la certezza di fare qualcosa di inutile e in assenza di alcuna logica. Vivere in un campo è cercare di costruire qualcosa che possa assolvere le funzioni di un letto o di una sedia, passare le giornate tra la polvere e il buio; mantenere il ricordo di ciò che si era prima di entrare, distinguersi dalla massa uniforme, ritrovare il proprio posto all’interno di un sistema sociale, creare nuovi legami e nuove alleanze.

L’umanità prigioniera raccontata da Feuchtwanger è, infatti, un microcosmo in cui convivono proletari, borghesi, intellettuali, professionisti e legionari stranieri (imprigionati come nemici mentre sul petto portano le medaglie della Repubblica): persone deluse e tradite dalla Francia e che si trovano ora a tentare tenacemente di recuperare un ruolo sociale all’interno del campo. Si diventa fantasmi, privati persino dei segni burocratici dell’identità. Quanta importanza allora assume un semplice documento: «In genere si tratta di un risibile pezzo di carta, di un risibile bollo apposto da uno scrivano indifferente a ogni emozione. Eppure, quante decine, quante centinaia di migliaia, quanti milioni di persone sono a caccia di un certo pezzo di carta, di un certo timbro». Già, quanto è breve il tratto di strada che separa il non concedere un documento a un individuo dal non riconoscerlo come uomo? Non solo in Francia, sta il Diavolo, ma questa è un’altra vicenda. 

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