Alcune note su «Country Dark»

di Roberto Serrai, il traduttore italiano di Chris Offutt

Alcune note su Country Dark

di Roberto Serrai, il traduttore italiano di Chris Offutt

 

È opportuna una breve premessa, forse noiosa, tuttavia importante: io convivo da sempre con la paura, tanto che ormai è diventata un sentimento, non una semplice sensazione, e si declina sempre in maniera diversa. Quando ho preso in mano Country Dark questa parte di me mi ha avvisato che dovevo stare attento. Era il secondo libro che traducevo di uno stesso autore, e pure con tanti anni di mestiere mi è successo di rado. Più che negli altri casi, per l’affetto che provo verso questo autore, ho sentito la necessità di impegnarmi al massimo a non illudermi, in alcun modo, di avere – grazie a Nelle terre di nessuno – «capito» la lingua e la scrittura di Offutt. Perché magari è un po’ vero, quando ci pensi, ne parli o ne scrivi, ma mentre lavori è una supponenza pericolosa. Bisogna sempre cancellare (quasi) tutto, ricominciare da capo, considerare ogni testo come unico. Espressioni come «voce italiana» di un determinato autore, poi, se mi onorano tuttavia mi fanno venire la pelle d’oca. Mi capita così spesso di essere frainteso che dubito perfino di essere la voce italiana di me stesso. Tra Gramsci e Spivak, questo «me stesso» mi pare piuttosto un subalterno, con qualcun altro che parla al posto suo. Ecco, ormai è chiaro: con queste brevi note andremo un po’ sul filosofico. Ma procediamo con ordine.

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Country Dark è un romanzo ricchissimo. È piuttosto breve, ma ha dentro davvero tante cose. È una grande storia di amore, di vita e malavita, del ritorno da una guerra terribile, di tempo trascorso in prigione, e c’è pure un po’ di critica sociale. Mi ha subito ricordato (in modo molto prosaico) i gelati di Berthillon, a Parigi, specialmente i gusti alla frutta: palline molto piccole, ma un vero concentrato di bontà. In uno scrittore così attento, però, diventa importante anche ciò che manca. Alla fine del primo capitolo, quando Tucker si accampa per la notte e lo vediamo – un classico della cultura americana – come uomo solo al cospetto della Natura, ciò che manca, per via delle nubi che le nascondono (quando nel cielo nerissimo della campagna, ed è questo uno dei sensi del titolo, senza le mille luci della città sarebbero molto evidenti) sono proprio le sue amate stelle. Intuita l’importanza delle medesime, ho fatto qualche ricerca: a grandi linee il Kentucky, le zone della Corea dove Tucker aveva combattuto e (incidentalmente) casa mia sono compresi nello stesso intervallo di paralleli. In guerra Tucker vedeva, dunque, lo stesso cielo, e questo gli sarà stato di conforto. Le costellazioni interessate si spostano a seconda delle stagioni, ma restano quelle. Orione, per esempio. Uno dei motivi per cui mi piace dove abito è che se apro la finestra di notte e guardo il cielo la vedo subito. Orione era un cacciatore, come mio padre, e per questo la sua vista consola anche me. La coincidenza ha contribuito ad avvicinarmi al romanzo, ma la nota personale non è fine a se stessa, perché introduce un altro grande tema di Country Dark, ovvero la paternità.

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Ma torniamo alle stelle. La loro importanza nell’economia della vicenda è confermata anche sul piano linguistico. Una semplice ricerca sulla versione elettronica del testo permette di apprezzare l’uso frequente di verbi come to stare (fissare), to start, to startle. Le etimologie sono ovviamente diverse: to stare per esempio fa parte della stessa «famiglia» di to starve (avere molta fame) e dell’aggettivo stark (fisso, rigido) ma anch’esso «contiene» visivamente star: l’occhio lo registra, la suggestione c’è. In totale, questo sintagma ricorre 58 volte. Più di una ogni cinque pagine (e l’ultima immagine del libro, subito prima dell’Epilogo, è proprio di Tucker che torna a casa seguendo le costellazioni). Un piccolo cielo stellato, anche sulla carta, insomma.

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Introduciamo un altro elemento: Country Dark è ricco anche di suggestioni cinematografiche. Se restiamo nel mondo anglosassone, Tucker mi ha ricordato un po’ Walt Kowalski (un altro reduce della Corea), il protagonista del sottovalutato Gran Torino (2008) di Clint Eastwood – che conserva come un feticcio, tra l’altro, lo stesso fucile (un M1 Garand) che compare sulla copertina dell’edizione italiana; ma anche, per certi versi, il capitano Joseph Blocker dello splendido (per me, almeno) Hostiles (2017) di Scott Cooper. Il capitolo sulla visita degli assistenti sociali, poi, mi ha riportato da vicino e con immutato dolore al 1994 di Ladybird Ladybird di Ken Loach (di qui la critica sociale). A un certo punto ha cominciato anche a girarmi in testa un passaggio di un film stavolta italiano, Il portaborse (1991) di Daniele Luchetti, ovvero quando il personaggio di Silvio Orlando dice ai suoi studenti che le due cose che occorrono per essere uomini sono, e qui cita Kant, «un cielo stellato sopra di me e la legge morale dentro di me». È la conclusione della Critica della ragion pratica (1788), solo che allora non me lo ricordavo, e l’ho dovuto cercare su internet. Complici una serie di fattori, in filosofia non ho mai superato un 6 scarsissimo. Ho ancora tutti i libri, però; li tengo chiusi in uno scatolone nascosto nella soffitta della casa di mia madre.

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Insomma, per me tradurre (quando il libro è bello) significa avere la testa piena di suggestioni, che in genere seguo sempre (durante le fasi «di ricerca», per esempio, ho letto anche il romanzo di Melissa Ginsburg, la moglie di Offutt – Sunset City, 2016 – e se ve la cavate con l’inglese ve lo raccomando; dopo ho anche recuperato in rete una pila di tascabili del padre di Offutt, ma questa è un’altra storia. Insomma, sono andato in biblioteca e ho preso in prestito Kant. Se Tucker ha un cielo stellato sopra la testa, e abbiamo visto che ce l’ha, come la mettiamo con la legge morale dentro di sé? Dovevo scoprirlo. Confesso che a questo punto la traduzione l’avevo ormai quasi finita, e questa ricerca sarebbe dunque servita da verifica. Se c’era anche questo livello di lettura, era necessario appurare che non avessi fatto qualche sciocchezza (per esempio rendere una frase col tono sbagliato, o in un registro troppo basso).

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Prima di versare qualche euro a Wikipedia (per gratitudine: senza le sue pagine su Kant non ne sarei uscito), dopo trentasei anni ho un po’ diradato la nebbia che avvolgeva il concetto di imperativo categorico. Nel caso di Tucker «uomo kantiano», insomma, agire seguendo la legge morale significa che la «massima della propria volontà» (ovvero quello che lui ritiene giusto in una certa situazione, e su questo Tucker ha le idee chiarissime, perché non esita mai) coincide con il «principio di una legge universale» (ovvero vale, o dovrebbe valere, per tutti). La riprova di questo ragionamento sta nella legge di natura, che motiva l’azione con la risposta alla domanda «che cosa succederebbe se tutti agissero così». Così, per esempio, Tucker interviene contro l’assistente sociale prima di tutto per difendere la propria famiglia, ma anche perché l’altro procede in direzione contraria alla natura stessa del proprio lavoro, e se tutti facessero come lui, vivremmo in un mondo terribile. Lo stesso schema, più o meno, si applica a molte delle azioni decise da Tucker. Sembrerebbe, quindi, che tutto corrisponda ai precetti del filosofo di Königsberg. Per fortuna, però, non è così; il romanzo si ridurrebbe a una sorta di exemplum medievale, mentre la grande letteratura si nutre di ambiguità, insinua dubbi, fa riflettere e discutere. La domanda kantiana, infatti, vale anche per Tucker: cosa succederebbe se tutti si comportassero come lui? E la legge di natura, a questo punto, dal territorio dei principi universali viene drasticamente ricondotta al contesto della storia (e, certo, di ciascuno dei suoi lettori). Un riferimento kantiano resta così lecito, ma si inserisce in un processo dialettico, peraltro facoltativo che rende ancora più preziosa una lettura già, come si è visto, molto ricca.

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Country Dark arriva ventisei anni dopo Nelle terre di nessuno. Una delle differenze più evidenti tra i due libri – lo si accennava poco fa – è il modo più maturo con il quale viene trattato un tema davvero archetipico: la paternità. Questo a prescindere dall’efficacia immediata della scrittura: nei racconti del 1992 ci sono, lo abbiamo letto, molte figure paterne: disfunzionali, divertenti, squilibrate, comunque riuscite. Con Tucker, però, gli anni trascorsi tra i due libri sono serviti a costruire un personaggio più corposo e che non si dimentica facilmente. Basti pensare alla parte in cui con pudore lo ascoltiamo mentre parla a Big Billy, uno dei suoi figli senz’altro sfortunati, ma che possono contare su un padre così. Oppure a quando lo vediamo accompagnare la figlia Jo al suo «posto speciale» sulla montagna. Sono pagine meravigliose, e commoventi nel senso più vero e meno artificioso del termine. Avremo presto occasione di tornare su questo tema, però, e approfondirlo; me ne sto accorgendo, eccome, mentre lavoro al prossimo libro che tra l’altro, anche in questo, testimonia la virtuosa progettualità nella proposta di questo autore ai lettori italiani: un memoir del 2016, My Father the Pornographer, nel quale il rapporto con la figura paterna è, si capisce già dal titolo, tema centrale.

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Anche stavolta, però, vorrei concludere queste brevi note con un oggetto curioso. Nell’edizione italiana diventa – be’, di questo si tratta, in fondo – un banale «apribottiglie» (p. 11), ma in inglese si chiama church key ed è senz’altro una scelta lessicale più divertente (e probabilmente ironica, visto che aprire bottiglie di alcolici non è un’attività molto pia; oltretutto, il termine entra nell’uso comune anglosassone, con quel senso lì, proprio negli anni Cinquanta). Ce l’avevamo pure noi, nel cassetto di cucina; da una parte serviva per togliere i tappi a corona, dall’altra (quella a punta) per forare le lattine di una volta, prima che arrivassero le linguette a strappo. Ricordo che nei primi anni Ottanta al mercatino americano di Livorno si trovavano ancora sinistre lattine di Budweiser senza linguetta, e io rimasi a lungo nel dubbio se comprarle – avevo l’attrezzo necessario! Potevo aprirle! Poi decisi altrimenti, e per fortuna: traducendo Country Dark, infatti, ho scoperto che uscirono di produzione a metà degli anni Sessanta. Quante cose si imparano, facendo questo mestiere.

 

PS: A dimostrazione di come il lavoro su un testo, in fondo, non finisca mai davvero, dopo aver consegnato questo contributo all’improvviso mi è venuto un dubbio. Ma se anche in Corea Tucker vedeva (grosso modo) le stesse costellazioni, come mai nel capitolo primo dice di averne sentito la mancanza? Dopo qualche ora di genuino terrore, credo di aver trovato la risposta: proprio perché sono le stesse costellazioni, ma non è lo stesso cielo, perché le stelle non sono nella posizione in cui, stagione dopo stagione, era abituato a vederle nel Kentucky. Non disegnavano più, nel cielo, una geografia speculare a quella del terreno sottostante. Non potevano servirgli, semplicemente guardandole, per trovare la strada di casa. Potevano ricordargli la sua terra, ma non ricondurlo fin là. Ho tirato un sospiro di sollievo. Fino al prossimo dubbio, ovvio.

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